Attualità, storia e
tradizioni dell'artigianato artistico
Numerosi sono gli approcci
possibili e validi con la realtà dell'artigianato romano - ricca di passato e
di tradizione ma con un presente difficile, attraversato da una profonda crisi -
così come molteplici sono le attività interne a questo mondo composto da
mestieri perduti e ritrovati, ma soprattutto dalle mille storie di artigiani
anziani ancora pieni di vitalità e
di giovani non meno valenti.
Centrando l'attenzione
sull'attualità e le tradizioni di attività in cui il confine fra artigianato
ed arte è spesso molto labile, non vogliamo certo operare una scala di valore
fra i differenti mestieri. Il motivo della scelta è un altro. Mentre infatti
alcuni artigiani di "servizio" quali meccanici, idraulici,
tappezzieri, falegnami ed altri riescono a sopravvivere, pur tra innumerevoli
difficoltà, ed i mestieri volti alla creazione di oggetti di uso quotidiano
sono invece necessariamente sopraffatti da una più efficiente produzione
industriale, il settore dell'artigianato artistico, sostenuto da abili e tenaci
superstiti rappresenta un patrimonio insostituibile ma a rischio di estinzione.
Intendiamo evitare due
opposti ed ugualmente nefasti atteggiamenti: non vogliamo infatti indulgere
nella nostalgia di un passato rimpianto o idealizzato, nella ricerca del tempo
perduto, ma neanche avallare con il silenzio la cancellazione di radici
storico-culturali tramandatesi nel tempo attraverso botteghe ed attività di cui
si vanno oggi perdendo tracce.
Il necessario e positivo
sviluppo delle tecnologie e della produzione industriale, che tra l'altro ha
permesso una maggiore diffusione e fruibilità di oggetti di uso comune un tempo
realizzati artigianalmente, non può e non deve distruggere affascinanti
mestieri in cui l'abilità manuale rimane insostituibile, attualmente degradati
anche a causa dell'abbandono, pressoché totale, in cui le istituzioni
competenti li hanno lasciati per anni.
Non abbiamo la pretesa di
proporre una storia ed un panorama completo dell'artigianato artistico romano,
ma solo uno dei tanti itinerari possibili alla scoperta di questo affascinante
mondo, che non deve essere considerato staticamente né relegato a mero fenomeno
folcloristico. L’obiettivo di questo lavoro è dunque quello di far conoscere,
in primo luogo alle giovani generazioni, una realtà complessa, ma anche di
sollecitare chi ha la facoltà per intervenire nella salvaguardia del settore
affinché venga finalmente raccolto il grido di allarme lanciato dai sapienti
continuatori di una preziosa tradizione.
Cenni
storici sull'artigianato e le corporazioni
Ripercorrere, sia pure per
brevi note, la storia dell'artigianato a Roma è sicuramente un modo per
avvicinarsi, più in generale, alle vicende economiche, politiche, religiose ma
anche alla vita quotidiana della città di un tempo, particolarmente ricca di
aneddoti, curiosità e tradizioni.
E' da notare che, nei
secoli, numerosi termini sono stati usati per indicare le varie associazioni di
mestiere, che esistevano fin dai tempi più remoti. Così può accedere di
sentir parlare, spesso indifferentemente, di corporazioni, collegi, università,
società, sodalizi, accademie, scuole o altro ancora.
Pochi anni dopo la
fondazione di Roma, da quanto è dato sapere, esistevano già almeno otto collegi
che raggruppavano altrettanti tipi di attività: vasai, suonatori di tibia,
orefici e argentieri, falegnami, tintori, fabbri, lavandai, fornai.
Sono fonti molto antiche -
di alcuni secoli successive agli avvenimenti trattati - ad illustrare
l'importanza di tali gruppi per il mantenimento dell'equilibrio sociale e
politico. Attribuendo a Numa Pompilio la distribuzione del popolo in arti e
mestieri, Plutarco affermava ad esempio: "Poiché la città era composta da
due nazioni, o per meglio dire, separata in due partiti che non volevano in
alcun modo unirsi, né far tacere quel dissenso che faceva nascere tra essi ogni
giorno risse e contese interminabili. Egli pensò dunque che, come i corpi
solidi non possono mescolarsi insieme quando sono interi, ma si uniscono più
agevolmente quando sono sminuzzati o ridotti in polvere, facilitando l'unione la
piccolezza delle parti, così era necessario dividere il popolo in tante piccole
parti e creargli perciò degli interessi particolari."
Durante la Repubblica e,
successivamente, ai tempi dell'Impero, l'artigianato ebbe alcuni periodi di
notevole prosperità nel settore bellico, con la produzione di armi e armature,
ed in quello civile, per l'accresciuta richiesta di beni di consumo.
Particolarmente fiorente era anche l'edilizia, con le sue numerose
specializzazioni artigiane: dai fabbri ai
lignari, dai cementari
agli arcuari e via dicendo.
La vita delle corporazioni
fu invece segnata da alterne vicende. I collegi, osteggiati e soppressi numerose
volte - in alcuni periodi rimasero in vita solo quelli, dei fabbri ad esempio,
ritenuti necessari per esigenze di difesa - vennero ripristinati nel III secolo
dopo Cristo. Posti sotto il diretto controllo dello Stato, avevano però perso
la caratteristica di libere associazioni professionali, trasformandosi in
strumento di coercizione nelle mani dell'imperatore.
Le regole divennero ferree
- la partecipazione era ormai obbligatoria e vincolante - soprattutto per le
corporazioni che si riteneva fossero produttrici di generi di primaria utilità
(armi ovviamente, ma anche oggetti in metallo, calzature, tessuti). In alcune di
esse si giunse persino, nei periodi di maggiore crisi, all'iscrizione coattiva
dei soci: l'appartenenza ad un collegio era ormai divenuta una sorta di
condanna.
Con la forza delle armi, ma
anche con strumenti repressivi e coercitivi di vario tipo, gli imperatori
cercavano dunque di arrestare il loro declino. Ma la storia, si sa, non può
essere fermata.
Nel corso del Medioevo le
corporazioni di arti e mestieri tornarono nuovamente a svolgere un ruolo di
primaria importanza, che si accentuò ancor più nell'età comunale.
L'artigianato aveva assunto
attorno all'anno Mille un notevole rilievo nell'economia, e già all'interno
delle corti si erano costituite alcune associazioni di artigiani. Si formò così
una nuova classe sociale, la borghesia artigianale, che si inserì tra la nobiltà
feudale e le popolazioni rurali e che andò ben presto differenziandosi anche al
suo interno.
Nel periodo della nascita
dei Comuni, caratterizzato da una ricca attività manifatturiera e commerciale e
dalla ricerca di nuovi mercati, lo scopo principale delle corporazioni rimaneva
quello di garantire gli interessi economici dei propri affiliati. Ben presto però
i rettori dei sodalizi si resero conto che per svolgere appieno questo ruolo
dovevano amministrare direttamente la cosa pubblica, trasformarsi cioè in
organi di governo. Assunsero così una posizione fondamentale nelle nuove
costituzione cittadine, e in molti casi divennero essi stessi consoli del
Comune.
Ma le peculiarità di Roma,
dove tra l'altro convivevano l'autorità temporale della Chiesa ed il potere
della nobiltà locale, limitarono - a differenza di altre città italiane -
l'influenza politica delle corporazioni di arti e mestieri ad un breve periodo.
Soltanto alla seconda metà del XIII secolo, quando divenne senatore il
bolognese Brancaleone degli Andalò, le corporazioni fecero infatti il loro
ingresso nella vita politica. Nel 1255 nacque la Mercanzia, dove si fondevano gruppi di artigiani e di persone che
esercitavano l'"arte" del commercio, i cui consoli si stabilirono sul
Campidoglio assumendo un ruolo di primo piano nel governo della città.
Ancora oggi sul colle è
possibile trovare traccia di iscrizioni e simboli che ricordano l'ubicazione di
alcuni sodalizi: quattro sono situati lungo la parete sinistra della gradinata
che conduce al portico del Vignola (albergatori, muratori, fornai, sarti), altri
sei sotto il portico del palazzo dei Conservatori (speziali, fondacali,
macellai, falegnami, osti, fabbri).
Formalmente le decisioni
all'interno delle differenti Università (così
chiamate perché raccoglievano l'intero "universo" di coloro che
esercitavano una stessa professione) erano prese in modo assembleare, e la
totalità degli associati aveva la facoltà di eleggere gli
"officiali". Non tutte le arti avevano però accesso al colle. Quella
dell'epoca non era certo una società imperniata sull'uguaglianza!
La preponderante potenza
economica acquisita dalle arti maggiori le portò dunque ben presto a
conquistare una notevole supremazia rispetto a quelle minori.
La mancanza di coesione,
che sfociò talvolta in contrasti e lotte aperte tra arti maggiori e minori, creò
i presupposti per la fine del potere politico delle corporazioni. Dopo essersi
in un primo tempo serviti dei sodalizi economici per accrescere la propria
autorità, signori e principi ne relegarono ben presto l'influenza in un ambito
puramente economico ed amministrativo, anche se i privilegi acquisiti dalle
Università in età comunale rimasero più o meno invariati fino al Settecento.
Nella prima metà del
Quattrocento il ristabilimento dell'autorità temporale dei papi, ponendo un
freno agli sconvolgimenti politici che avevano caratterizzato il periodo
precedente, ridusse ancor più il potere della Mercanzia.
La situazione della città
non era allora delle più rosee. Tra prevaricazioni ed ingiustizie, pestilenze e
carestie, brevi riprese e nuove crisi - la popolazione nella Roma della fine del
XV secolo e degli inizi del successivo era ridotta a circa 40-50 mila unità -
iniziarono la rinascita e lo sviluppo urbanistico, che nel corso del Cinquecento
procedettero a passi da gigante.
Si ebbe così un boom
della produzione e del commercio di prodotti di lusso. La continua gara dei
nobili per tenere il passo con l'aumento dello sfarzo esteriore di Roma portò
le differenti famiglie a ristrutturare sontuosamente le proprie abitazioni
arricchendole di colonne, ori e stucchi. Nacquero pure nuove tipologie di mobili
mentre l'arredamento, prima basato su criteri di funzionalità, divenne
anch'esso fastoso: tavoli, armadi, credenze, sedie, panche, furono arricchite di
decorazioni realizzate da valenti ebanisti e doratori. Sotto il pontificato di
Sisto V si intensificò inoltre la produzione della lana, della seta, dei
velluti: la moda e l'eleganza nell'abbigliamento avevano infatti assunto un
ruolo di primaria importanza per la nobiltà dell'epoca.
La "mania di
grandezza" imperante a Roma dava comunque i suoi frutti dal punto di vista
artistico. Nella città, tra la fine del Quattrocento ed il secolo successivo,
misero piede ed operarono i più grandi artisti dell'epoca quali, tra gli altri,
Donatello, Andrea e Jacopo Sansovino, il Pollaiolo, Raffaello, Bramante,
Michelangelo. La magnificenza e lo splendore delle loro opere è però anche
frutto del contributo di una schiera di sconosciuti garzoni e maestri romani -
quali scalpellini, argentieri, decoratori - che spesso lavorarono in cambio di
compensi bassissimi.
In una città come Roma,
capitale dello Stato Pontificio e centro del cattolicesimo, la componente
religiosa svolgeva ovviamente un ruolo di primaria importanza in tutti gli
aspetti della vita quotidiana, e quindi anche nelle corporazioni.
Lo spirito religioso emerge
chiaramente dalla lettura degli Statuti, tutti solennemente redatti in nome di
Dio, Gesù Cristo, la Vergine ed i Santi. Ciascuna Università aveva il proprio
cardinale protettore (figura prestigiosa incaricata di difendere in alto loco
gli interessi degli artieri), un santo patrono (scelto in genere perché in vita
era in qualche modo collegato, oppure aveva direttamente svolto un'attività
analoga a quella del sodalizio), ed una chiesa (cui spesso erano annessi un
oratorio ed un ospedale), dove i membri della corporazione si riunivano per
assistere alle funzioni religiose ma anche per trattare gli affari.
La reggenza delle strutture
di culto e di beneficenza era affidata alle Confraternite, aggregazioni di
fedeli abilitate con apposito provvedimento pontificio. Tutte le maggiori
Università avevano un proprio sodalizio religioso, ma le due istituzioni erano
tra di loro gerarchicamente ed amministrativamente indipendenti. Per poter
accedere alla Confraternita, oltre ad appartenere alla relativa arte, bisognava
tenere una condotta morale ineccepibile ed aver compiuto i venti anni di età.
Gli obblighi religiosi per
i membri delle Università erano particolarmente rigidi: ognuno infatti doveva
assistere, con frequenza stabilita, alle funzioni religiose e confessarsi almeno
due, tre volte l'anno. Severe multe erano minacciate per i trasgressori, che
venivano individuati attraverso l'apposizione di firme su un registro situato
all'ingresso della Chiesa, ma certo non doveva essere facile controllare
l'autenticità delle calligrafie!
Anche se l'esempio che
proveniva dalle alte sfere nobiliari ed ecclesiastiche non era dei migliori
(cortigiane e concubine erano di norma presenti nei palazzi del potere), alla
popolazione veniva dunque richiesto un ferreo rispetto della moralità: osti ed
albergatori non potevano ad esempio favorire incontri "particolari" né
incoraggiare il gioco, e la bestemmia era punita con pesanti ammende,
fustigazione e "tratti di corda". La prescrizione rimaneva però
spesso lettera morta; nella Roma dei papi, si sa, le leggi venivano rispettate
ben poco!
Anche le cerimonie più
propriamente religiose scadevano talvolta in puro e semplice fenomeno
folcloristico. E' il caso di una tradizione particolarmente diffusa, quella
delle processioni che ogni corporazione organizzava in concomitanza con
particolari festività. La principale, la cui importanza andò crescendo nel
Tre-Quattrocento, si svolgeva il 15 agosto in onore del SS. Salvatore, ed era
una sorta di festa del lavoro ante
litteram alla quale partecipava la maggioranza delle Università.
La celebrazione iniziò però
a creare, con il passare del tempo, sempre maggiori problemi di ordine pubblico.
Gli incidenti e le liti che si accendevano per questioni di precedenza spinsero
quindi i vari pontefici dapprima a stabilire l'ordine con cui dovevano sfilare
le Università, poi, visto il ripetersi dei disordini, alla totale soppressione
della cerimonia nel 1565.
La grandiosità delle
principali celebrazioni dei singoli sodalizi, che si svolgevano in
corrispondenza della festività del santo patrono, era direttamente
proporzionale alla potenza della corporazione o della Confraternita che le
organizzava. In tale ricorrenza molte associazioni potevano anche esercitare un
importante privilegio: quello della liberazione di un condannato, pure alla pena
capitale. Questa singolare prerogativa era loro concessa dalle autorità quale
riconoscimento per l'attività svolta in campo economico e spirituale. Potevano
essere liberati persino gli omicidi purché fossero stati precedentemente
perdonati dai parenti della vittima ma anche, in genere, purché... la famiglia
del reo avesse la possibilità di versare una cospicua elargizione nelle casse
dell'associazione. Fra i personaggi celebri scampati al boia figura anche
Benvenuto Cellini, salvatosi grazie all'intercessione dell'Università dei
macellari. Nella Roma del Cinque-Seicento molte Università ebbero questo
privilegio: la facilità con cui esso veniva accordato era più o meno la stessa
con cui si distribuivano le condanne a morte!
Dal XV al XVIII secolo,
mentre il numero delle Università andava moltiplicandosi - soprattutto per le
continue divisioni interne che portavano alla nascita di corpi comprendenti
categorie sempre più ristrette e specializzate - la loro importanza subiva un
progressivo ridimensionamento. L'affermarsi del modo di produzione
capitalistico, con lo sviluppo delle forze produttive e con l'espansione dei
mercati rendeva sempre più obsoleto l'ormai consolidato sistema
protezionistico. Le Università, con i propri statuti, i loro rigidi regolamenti
interni e le innumerevoli limitazioni costituivano quindi un ostacolo anziché
uno stimolo per le nuove imprese ed il progresso economico.
Le teorie liberiste
conquistarono dunque anche Pio VII, che istituì la Congregazione ecumenica proprio con lo scopo di riorganizzare
l'economia pubblica. In un breve arco di tempo (1800-1801) emanò inoltre una
serie di decreti volti a sopprimere quasi tutte le Università, i loro statuti e
privilegi, mantenendo soltanto il diritto di riunione, nelle chiese, per le
pratiche religiose e di beneficenza. Da questa ondata innovatrice vennero tenuti
fuori quei sodalizi ritenuti utili per la salute, la fede, la sicurezza
pubblica.
La soppressione delle
corporazioni lasciò un vuoto organizzativo, soprattutto tra gli aderenti alle
arti meno potenti, che venne in seguito colmato con la costituzione di
associazioni ben più adeguate ai tempi quali le prime leghe e Società
di mutuo soccorso dell'allora nascente movimento operaio.
Visti gli scarsi risultati,
andò gradualmente diminuendo la fiducia che Pio VII aveva riposto nei confronti
del liberismo, che precedentemente gli era sembrato adatto per la risoluzione di
ogni problema. Così, tra dubbi e contraddizioni, vennero via via ripristinati
il collegio dei fabbricanti di drappi, l'Università dei barbieri, quella dei
maestri calzolai, mentre nel 1831 nasceva a Roma la Camera di commercio.
Nel 1852 infine Pio IX abolì
totalmente gli effetti dei provvedimenti di soppressione delle corporazioni,
sperando di rafforzare il vacillante potere temporale con un riavvicinamento
alla chiesa delle forze del lavoro.
L'efficacia delle sue
iniziative fu però scarsissima: le Università, organismi ormai divenuti
anacronistici, non avevano più ragione di esistere. Le poche che si
ricostituirono scomparvero quasi completamente con l'applicazione della legge
del 17 luglio 1890 sulle opere pie di pubblica beneficenza, con la quale i beni
delle Confraternite e delle congregazioni religiose vennero incamerati dallo
Stato.
Significativa è la presa
di posizione di Francesco Crispi sull'argomento, contenuta in una relazione
ministeriale del 18 febbraio 1890: "Non perderò molte parole riguardo alle
Confraternite e alle istituzioni consimili. Non si può riconoscere un carattere
di utilità pubblica in enti che, salvo poche eccezioni, hanno per fine lo
spettacolo di funzioni religiose, causa ed effetto di fanatismo ed ignoranza, di
regolare il diritto di precedenza nelle processioni; di difendere le prerogative
di un'immagine contro un'altra; di stabilire il modo e l'ora delle funzioni; di
regolare il suono delle campane, lo sparo dei mortaretti e via dicendo. Sono
continui e gravi gli inconvenienti di ordine morale, politico e sociale a cui
esse danno luogo nell'esercizio della propria azione. Sono in una parola più
dannose che utili alla società".
Le corporazioni
professionali tornarono ad essere considerate "pilastro dell'economia"
durante il ventennio fascista, quando l'esaltazione della grandezza dell'Impero
romano si concretizzò anche in una parodia delle sue istituzioni. In un
discorso degli inizi degli anni Trenta il duce dichiarava: "Le Corporazioni
sono lo strumento con il quale lo Stato attua la sua disciplina integrale,
organica, unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo della
ricchezza, della potenza politica e del benessere del popolo italiano". Una
profonda umiliazione per Roma e le sue tradizioni.
Imparare
un mestiere, ovvero "andare a bottega"
Nel corso dei secoli
numerose istituzioni si sono affiancate alle botteghe nella formazione dei
giovani artigiani. Alcune di esse hanno però svolto anche un importante ruolo
nella vita della città, come l'Ospizio apostolico del S. Michele, fondato nel
1582 da Leonardo Carusi o Cerusi - detto il
Letterato - con lo scopo di raccogliere dalla strada i ragazzi orfani o
indigenti e di istruirli alle arti applicate.
Lo "spedale dei
fanciulli spersi", che nacque con la benedizione dell'allora pontefice
Innocenzo XI, ebbe la sua prima sede negli edifici di Ripa Grande sul Tevere, e
divenne poi "Ospizio apostolico dei poveri invalidi" nel 1695 con Bolla
pontificia di Innocenzo XII. I ricoverati, mendicanti giovani e vecchi, vi
svolgevano diverse attività, ma dovevano devolvere il ricavato del loro lavoro
per il mantenimento della struttura. Una parte di essa venne poi destinata a
casa di correzione e prese il nome di "S. Michele dei cattivi": al suo
interno furono allestiti laboratori artigianali, dove si producevano pregevoli
manufatti. Lo sfruttamento della manodopera a costo zero e senza alcun limite di
orario, pur andando a discapito dei reclusi, favoriva però il conseguimento di
buoni risultati artistici e tecnici.
Fra le attività più
importanti che hanno caratterizzato la vita dell'ospizio va ricordato in primo
luogo il laboratorio di arazzi, che raccolse l'eredità dell'arazzeria Barberini:
la qualità di lavorazione era talmente elevata da far paragonare i prodotti del
S. Michele ai più famosi gobelins
francesi e da farli scegliere da pontefici e nobili quali doni per personaggi
illustri. In questa scuola-laboratorio, fondata su incarico di Clemente XI -
secondo alcune fonti da Demignot secondo altre da Simonet - furono prodotti gli
arazzi della cappella Sistina e di quella Paolina, ma anche quelli raffiguranti
la storia di Roma presso il Palazzo dei Conservatori.
Nei primi anni del XVIII
secolo vennero allestite pure officine per la lavorazione del ferro, per la
formazione di calzolai, falegnami, cappellai, calzettai e, nell'ala femminile,
laboratori di ricamo in bianco, a colori e in oro, biancheria, sartoria, stiro,
maglieria. Da un documento del 1726 sembra che l'attività del lanificio annesso
all'ospizio fosse molto importante per l'economia di Roma, perché commissionava
anche lavoro esterno impiegando circa duemila donne e più di cento uomini.
I giovani
"recuperati" non dovevano però essere molti, malgrado i buoni
propositi, se il cardinale Tosti, chiamato nel 1829 da Pio VIII a dirigere
l'istituto, arrivava ad affermare: "I capi d'arte più non servono allo
strettissimo obbligo di ammaestrare rettamente i giovani con vantaggio,
trascurando l'istruzione degli alunni, o al più applicandoli a lavori usuali e
grossolani. Sicché all'uscire di questo paterno ricovero non erano sicuri di
trovarsi un onesto sostentamento per mancanza di sufficiente abilità."
Nel XIX secolo i laboratori
all'interno del S. Michele si moltiplicarono, e l'insegnamento delle varie
discipline fu affidato ai più importanti artigiani dell'epoca. La tipografia
aveva il monopolio per la stampa dei libri di testo nelle scuole; l'officina di
zincografia e di fotoincisione guadagnava numerosi riconoscimenti in molte
esposizioni; il laboratorio di ebanisteria - affidato a Luca Seri - realizzò i
mobili per la Real casa ed altri
importanti arredi, ma la produzione decadde durante la prima guerra mondiale,
quando furono fabbricate eliche per aeroplani; la fonderia, creata nel 1822,
lavorò tra l'altro per la fusione del monumento a Vittorio Emanuele II (per la
quale occorsero ben diciotto mesi!) e per la statua al presidente degli Stati
Uniti Lincoln. Vale la pena ricordare anche l'officina di intaglio del marmo,
attrezzatissima, affidata allo scultore Adamo Tadolini, quella di vetrate
artistiche diretta da Cesare Picchiarini, il laboratorio di cuoio bulinato e
legatoria guidato dal Ricci, i corsi di disegno, architettura, decorazione e
ornato, prospettiva e figura tenuti da Rodolfo Villani.
Il
Museo Artistico Industriale
Nel 1926 fu tentata la
fusione fra l'ospizio del S. Michele ed un'altra scuola romana, il Museo
Artistico Industriale. Nella sua pur breve storia - fondato nel 1874, esaurì il
proprio ruolo attorno agli anni '40 di questo secolo - l'istituto ha svolto una
funzione molto importante nella formazione di operatori qualificati nel settore
delle arti applicate. Insieme alla Scuola Superiore d'Arte Applicata
all'Industria di Venezia - nata nel 1873 - fu infatti il primo ente dell'Italia
post-unitaria finalizzato alla promozione e allo sviluppo artistico ed
industriale.
Il Museo nacque nei locali
del convento di S. Lorenzo in Lucina - su idea del principe Baldassarre
Odescalchi e dell'orafo Augusto Castellani - come raccolta di manufatti
dall'antichità al XVIII secolo, e proprio lo studio dei motivi classici venne
posto al centro della didattica quale base per la realizzazione di oggetti di
qualità da immettere nel ciclo industriale ma anche per la formazione del gusto
artistico degli operai produttivi. La contemporaneità fra teoria e
sperimentazione - affiancata da una costante collaborazione tra scuole e musei -
caratterizzò sempre la storia della struttura.
L'istituto non fu però
nelle grazie dei governanti, tanto che pesanti problemi economici accompagnarono
perennemente la sua esistenza. A soli due anni dalla nascita, nel 1876, il Museo
si trasferì nelle soffitte del Collegio Romano, dato che i locali
precedentemente occupati erano stati destinati a caserma dei Carabinieri. Nella
nuova sede vennero istituiti i primi tre corsi d'arte: applicazione dello smalto
ai metalli (diretto da G. Villa), modellazione in cera (da G. Gagliardi),
pittura decorativa (da D. Bruschi). Sempre nello stesso anno iniziò un corso
libero di storia dell'arte tenuto la domenica mattina dall'allora segretario del
Museo Raffaele Erculei. Nelle scuole dell'istituto si formarono numerosi
artisti-artigiani quali Giuseppe Cellini, Duilio Cambellotti, Alberto Grandi,
Adolfo De Carolis, i quali divennero in seguito docenti delle varie officine.
I lavori degli allievi
venivano spesso messi in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma e premiati
anche alle grandi rassegne nazionali ed europee degli inizi del secolo. Ma ai
momenti di gloria si alternavano quelli di profonda crisi, soprattutto
economica, che costringevano il museo e le sue scuole a continui trasferimenti,
durante i quali le raccolte rischiavano di smembrarsi.
Va segnalato, agli albori
del Novecento, l'impegno dei rettori per tenere la didattica al passo con i
tempi e superare l'obsoleto classicismo che permeava la scuola. Si iniziò a
tendere alla formazione di artigiani specializzati, pronti per essere inseriti
nella fiorente industria edilizia. Con questo obiettivo vennero istituiti corsi
per marmorari, stuccatori, intagliatori del legno ma anche lezioni di geometria
grafica con nozioni di architettura. Ceramica e pittura su vetro, oreficeria,
disegno applicato alle arti industriali, figura decorativa, storia dell'arte
applicata all'industria completano il quadro degli insegnamenti svolti nella
scuola.
La crisi si acuì nel 1926,
quando fu tentata la costituzione di un unico organismo, dove si volevano far
confluire le esperienze dell'Ospizio del S. Michele, del Regio Istituto
Nazionale Industriale Professionale con sede in via Conte Verde - l'attuale
Istituto Tecnico Industriale G. Galilei
- e del Museo Artistico Industriale. La conseguenza immediata fu lo smembramento
degli insegnamenti del Museo tra la sede del S. Michele e quella del Regio
Istituto. Soltanto alcuni anni dopo Roberto Papini, commissario del Museo, tentò
il rilancio delle sue scuole cambiando i programmi di studio, bandendo
definitivamente gli stili classici e ponendo l'architettura funzionale e
razionale alla base della didattica. Ma l'endemica mancanza di stanziamenti e le
temporanee chiusure impedivano ormai persino la conclusione dei corsi.
Sotto la direzione di
Giulio Carlo Argan (1941-43) venne introdotto anche un corso per
aiuto-architetti: l'esperienza dell'Istituto si stava però avviando alla sua
conclusione. Nel dopoguerra infatti le strade del Museo e quella delle scuole si
divisero: le raccolte furono disperse tra Palazzo Barberini, Palazzo Venezia ed
i magazzini del Comune di Roma, mentre dalle scuole nasceranno gli attuali
istituti statali d'arte.
Il
lavoro di bottega nei secoli passati
Il lavoro svolto dai
maestri aderenti ai vari sodalizi formatisi, nel tempo, in seguito alle
"scissioni" della Mercanzia
- che alla metà del XIII secolo raccoglieva l'insieme degli artigiani e
commercianti - venne sempre sottoposto ad un rigido controllo, o forse è meglio
dire che così era previsto dalla legge.
La regolamentazione delle
varie attività spettava ad una apposita magistratura, costituita nell'ambito di
ciascuna Università, che si occupava tra l'altro di difendere i diritti degli
associati nei confronti di chi esercitava abusivamente il mestiere ma anche
rispetto alle arti rivali. I magistrati delle corporazioni si interessarono
inoltre della vita interna del proprio sodalizio, avendo la facoltà di
infliggere pene - e assai frequentemente si avvalsero di questo potere - a
quegli affiliati che non rispettassero gli obblighi statutari.
Gli statuti impegnavano ad
esempio i tintori ad utilizzare unicamente colori di ottima qualità; i
parrucchieri a servirsi soltanto di capelli veri e a non usare mai crini di
cavallo per la realizzazione delle parrucche; i materassai a confezionare i loro
prodotti solo con la lana che gli veniva consegnata, senza aggiungervene altra
di qualità inferiore; i conciatori a lavorare esclusivamente con pelli nuove e
così via. Per lo più le pene erano pecuniarie - si poteva però arrivare alla
chiusura della bottega ed al sequestro della merce - ma qualche volta venivano
inflitte anche punizioni corporali: colpi di frusta, tratti di corda e messa
alla berlina.
Nel 1691 due pizzicaroli
accusati di aver confezionato mortadella con carne di cavallo furono condotti in
giro per Roma, in groppa ad un asino, con alcune salsicce legate al collo ed un
cartello, appeso dietro la schiena, che indicava il reato commesso. Una buona
dose di frustate e di torture varie, oltre all'espulsione dal territorio dello
Stato Pontificio, completavano la pena. Migliore sorte toccava ai sarti che
confezionavano malamente un capo di abbigliamento o si appropriavano di un po'
di tessuto del cliente. Dovevano infatti "solo" pagare pesanti multe e
rimborsare il valore della stoffa. I "capi difettosi" erano poi messi
in vendita al miglior offerente sulla piazza del Campidoglio: al malcapitato
sarto si offriva dunque un'occasione per recuperare qualche soldo, mentre ad
alcuni fortunati popolani quella di concludere un buon affare! Non tutte le
norme statutarie venivano però fatte rispettare alla lettera dai magistrati i
quali - giova ricordarlo - erano eletti dagli stessi membri delle corporazioni,
compresi i "potenziali imputati": la riconferma delle cariche avrebbe
quindi potuto essere compromessa da inimicizie e diffidenze generate da condanne
troppo severe.
Anche i rapporti tra le
botteghe che praticavano la stessa attività erano regolati da norme statutarie.
Per impedire la concorrenza si stabiliva - ma solo nel caso di alcune attività,
perché altre, al contrario, vennero concentrate - una distanza minima fra i
"rivali" di cento, centoventi metri. Con lo scopo di evitare
"monopoli" inoltre, tranne rare eccezioni, era vietato possedere
contemporaneamente più di una bottega dello stesso genere.
La normativa prevedeva
anche una sorta di copyright sulle
insegne dei laboratori, di cui erano severamente proibite copie ed imitazioni.
In genere sulle targhe venivano disegnati appariscenti simboli che indicavano
l'attività svolta: cappelli rossi da cardinale e neri da prete indicavano la
bottega di un cappellaio, grosse mani quella di un guantaio, galli e soli una
locanda, una frasca distingueva le taverne, un paio di forbici i laboratori di
sartoria e via dicendo.
Nella realtà comunque non
sempre tutto "filava liscio", come invece potrebbe apparire leggendo
queste simpatiche note di colore: la storia dell'artigianato, infatti, non è
composta, nei secoli, soltanto da idilliaci rapporti tra maestri e discepoli
oppure da botteghe dove operosità e ingegno si sono coniugate felicemente con
continuità.
A partire dal Medioevo, per
esercitare qualsiasi professione o arte - commerciale oppure artigianale -
bisognava essere iscritti alla relativa corporazione. Accedervi non era però
un'impresa facile. Per essere ammessi all'esame che consentiva di diventare
maestro bisognava infatti aver svolto in primo luogo un lungo tirocinio, da
garzone prima e da lavorante poi.
La "carriera" di
un apprendista artigiano cominciava in genere tra i dodici e i quindici anni,
quando i genitori decidevano di affidare il giovane alle dipendenze di un
maestro, con il quale spesso stipulavano un regolare contratto. La durata del
tirocinio variava da un mestiere all'altro (lo statuto dei vermicellari prevedeva due anni, quello dei droghieri addirittura
dieci); in ogni caso però non si poteva accedere alla carica di maestro prima
dei venti, venticinque anni di età.
La vita del garzone o del
lavorante in questo periodo non era sempre delle più rosee! Una volta che
l'adolescente era stato "ceduto" dalla propria famiglia, il maestro
faceva praticamente le veci del padre. Approntava quindi un letto nel
retrobottega, divideva con il ragazzo il cibo, curava la sua educazione e
l'istruzione, insegnandogli soprattutto a far bene i conti, requisito necessario
per un bravo garzone. Da "buon" padre, il maestro si sentiva anche in
diritto di menare le mani ogni qual volta lo ritenesse necessario. Le cronache
dell'epoca ci riferiscono numerosi soprusi ed atti di violenza di cui erano
vittime i giovani apprendisti.
Benvenuto Cellini, oltre ad
essere un valente artista, fu anche particolarmente esperto in materia:
nell'autobiografia racconta infatti con un certo orgoglio i maltrattamenti
inflitti ai lavoranti, tanto che ad un certo punto ne indusse uno a fuggire
dalla bottega. Le norme che regolavano la vita interna delle corporazioni erano
però rigide al punto da vietare di assumere quegli apprendisti che si fossero
allontanati, senza consenso, dal loro precedente padrone. Il malcapitato fu
quindi costretto a tornare indietro e ricominciare il calvario!
La mercede dei lavoranti,
che in genere corrispondeva al denaro necessario per il vestiario, e la durata
della giornata lavorativa (quasi sempre dall'alba al tramonto) venivano regolate
dagli statuti. Non era consentito il lavoro notturno o festivo, tranne che in
casi eccezionali, non sempre però di breve durata. Nella "fabbrica di S.
Pietro" ad esempio la norma fu spesso disattesa; nel 1549 Michelangelo si
rivolse direttamente a Paolo III chiedendo l'assoluzione per aver lavorato e
fatto lavorare gli operai anche di domenica, mentre quarant'anni più tardi, tra
il 1589 e il 1590, ben 800 operai vennero impiegati senza tenere la regola in
alcun conto.
Nel 1675 lo statuto della
corporazione dei cappellai stabiliva che il salario degli apprendisti dovesse
essere pagato il sabato, e che "per i prestiti fatti dai maestri ai
lavoranti fino alla concorrenza di quattro scudi, abbia valore di prova il libro
del maestro, purché sottoscritto dal lavorante debitore". Capitava però
anche che i giovani, accumulando debiti impossibili da estinguere, dovessero
rimanere legati a vita al proprio padrone.
Sfuggire alle dure regole
dell'apprendistato era praticamente impossibile: nei secoli XVI e XVII, è vero,
sorsero alcune scuole per consentire ai giovani di imparare il mestiere fuori
dalle botteghe. Anche in questo caso però non tutti avevano le stesse
opportunità di ingresso: accanto a strutture nate con scopi caritatevoli, gli
istituti erano infatti quasi sempre emanazioni dirette delle corporazioni
stesse, che vi facevano quindi entrare - inutile dirlo - i figli dei propri
aderenti.
Dopo aver sostenuto il
lungo tirocinio, chi era in possesso di requisiti di moralità, buona condotta e
fede religiosa poteva finalmente accedere al grado di maestro. A volte però il
sacrificio di anni, le angherie subite, le capacità acquisite non erano
sufficienti per entrare a far parte della categoria e poter aprire una propria
bottega. Oltre ad essere sottoposti ad un esame tecnico, i futuri maestri
dovevano infatti versare nelle casse della corporazione una somma, variabile a
seconda dell'importanza economica del sodalizio. Tutti coloro che non
possedevano beni immobili, non potendo addurre garanzie di solvibilità,
dovevano pagare cauzioni che arrivavano fino a 500 scudi! Chiaramente i
"soliti privilegiati", ovvero i figli dei maestri, venivano agevolati
in questa trafila, ed in qualche caso la carica era persino ereditaria. Le donne
potevano accedere solo a poche Università (ortolani, pescatori, tessili, sarti,
calzettari, barbieri), mentre i forestieri dovevano pagare tasse di ammissione
più alte.
Alla
scoperta dell'artigianato artistico
Nel cuore della vecchia
Roma resistono ancora, qua e là, alcune rare isole fuori dal tempo. Colpisce ad
esempio la zona di via dei Cappellari che, ignara del caos che la circonda,
conserva l'atmosfera di una città più piccola, dove gli artigiani lavorano
ancora in strada ed i rumori - voci umane, martelli ed altri semplici attrezzi -
non sono quelli di una metropoli sommersa dai clacson.
Si
tratta di oasi affascinanti, in una zona che sta però velocemente cambiando
volto. I dati parlano chiaro. In circa 10 anni le attività artigianali nel
centro storico si sono dimezzate. Pressione fiscale, espulsione delle vecchie
botteghe magari a vantaggio di jeanserie, mancanza di adeguati fondi ed interventi per la
salvaguardia del settore ma anche di incentivi per i giovani - e quindi di
ricambio generazionale - e, soprattutto, ferree leggi di mercato, hanno fatto
precipitare l'artigianato in una profonda crisi, dirottando i consumi verso i più
convenienti prodotti industriali.
Il ricordo di antichi
mestieri artigiani è ancora vivo nei toponimi di alcune strade, ma i superstiti
sono rari: numerose attività sono già scomparse, altre seguiranno entro breve
la stessa sorte. Le botteghe di doratori, ceramisti, intagliatori, tornitori,
tanto per fare qualche esempio, diminuiscono sempre più. Le poche rimaste sono
attive soprattutto nei rioni storici della città, da Trastevere a Borgo, ma
alcune strade, in particolare, mantengono una forte concentrazione artigianale.
Così ad esempio il rione Ponte, in via dell'Orso e nelle vie adiacenti, il
rione Monti tra via del Boschetto e via Baccina, oppure i dintorni di via del
Pellegrino. In queste zone si trovano ancora, tra le altre, vecchie e nuove
botteghe dedicate all'arte della ceramica e del vetro, numerosi
artigiani-artisti del legno, tessitori e legatori d'arte, cesellatori,
mosaicisti ma anche singolari laboratori dove vengono realizzate maschere per
teatro oppure restaurate bambole o vecchi lampadari.
A non demordere sono
soprattutto gli artigiani più anziani, nelle loro botteghe immutabili negli
anni e sempre stracolme di attrezzi e materiali appesi alle pareti o sparsi
ovunque, sommerse da un accumulo di lavori da eseguire ma anche da cianfrusaglie
di ogni tipo. Pervase spesso da forti odori, di colle animali o di altri
materiali antichi miscelati grazie ad un'alchimia sconosciuta ai più giovani,
sono certo poco accoglienti per gli estranei, nel loro apparente caos e
nell'assenza di ogni, sia pur minimo, comfort. A guardar bene però non manca
l'essenziale, e gli artigiani vi trascorrono l'intera giornata districandosi
alla perfezione nel "calcolato" disordine.
Una caratteristica di chi
ha una propria bottega è quella di non avere orari fissi di lavoro; se c'è una
consegna urgente da fare si può rimanere nel laboratorio pure a tarda sera o
persino di domenica. Il locale rappresenta per l'artigiano il fulcro intorno a
cui ruota la sua vita, composta di giornate scandite da abitudini consolidate e
ripetute nel tempo, che in alcuni casi comprendono anche una rituale e consueta
sfida a carte con i vicini.... in quei momenti non c'è cliente che possa
distrarre i giocatori, i malcapitati dovranno probabilmente aspettare la
conclusione della partita!
Spesso schivi e di poche
parole, perché abituati a trascorrere, magari da decine di anni, intere
giornate solitarie, questi tenaci continuatori di tecniche antiche si lasciano
però facilmente convincere, rotta la iniziale diffidenza, ad illustrare i
procedimenti del loro lavoro. Ma in alcuni casi la spiegazione non dura che
pochi minuti, scarna e priva di passaggi essenziali per chi è a digiuno della
materia. Chi esercita da decenni un mestiere considera infatti ovvie le nozioni
basilari; gli sembra quasi impossibile che qualcuno non le conosca. Ma appena si
comprende che in genere l'"iniziazione" non può avvenire verbalmente,
perché questi artigiani "parlano" soprattutto attraverso l'abilità
delle loro mani e i prodotti del loro lavoro, si è pronti per intraprendere il
viaggio!
Un po' tutti dovremmo forse
riflettere di più su questa realtà; per farlo abbiamo però bisogno in primo
luogo di conoscerla meglio. Per questo consigliamo una passeggiata per i rioni a
forte concentrazione artigiana, dove i più potranno persino scoprire mestieri
di cui ignoravano l'esistenza. Presi dalla routine quotidiana, spesso non
abbiamo neanche voglia o tempo per gettare uno sguardo, sia pure veloce, dentro
una bottega. L'avvicinamento con questo mondo, particolare e vivo perché fatto
di mille storie di artigiani, giovani e anziani, regalerà quindi piacevoli
sorprese.
Ogni rione o vecchio
quartiere ha le sue figure "storiche", artigiani con un numero
considerevole di anni di esperienza alle spalle. Alcuni sono contenti di
raccontarla, come il restauratore di mobili forse più esperto del rione Monti,
il maestro Aldo, che accoglie da sempre i clienti nella sua immutabile tenuta,
camice vissuto ed immancabile scoppoletta.
Fiero e geloso dei numerosi attrezzi da lavoro accumulatinel tempo, molti dei
quali vecchi ma ancora perfettamente funzionanti, è sempre pronto, come un
prestigiatore che estrae il coniglio dal cappello, a stupire l'interlocutore con
uno dei suoi mille "segreti". Quarantacinque anni di lavoro e un
mestiere tramandatosi in famiglia da alcune generazioni non sono cosa di poco
conto!
Fra i numerosi mestieri
legati al legno alcuni hanno un fascino veramente singolare, tanto che si
passerebbero ore intere ad osservare gli artigiani al lavoro. E' ad
esempio difficile staccare lo sguardo dalle mani ferme e sicure di un
intagliatore quando, con l'ausilio delle sgorbie - appositi scalpelli sagomati -
e di pochi altri semplici strumenti, realizza decorazioni di ogni tipo,
incidendo e scavando il legno fino a fargli assumere le forme desiderate. I più
abili, oltre a ricostruire fregi, parti mancanti di cornici, cimase e specchiere
sono persino in grado, da veri e propri artisti, di creare putti, statue e
sculture in genere.
L'intaglio viene eseguito
sulla base di un disegno prestabilito, creato dall'artigiano stesso oppure
commissionatogli. Una volta preparato il legno si inizia con la fase della
sbozzatura finché, quando i volumi hanno raggiunto il livello voluto, si passa
alla rifinitura. Gli strumenti usati nell'intaglio eseguito manualmente,
scalpelli e sgorbie, sono gli stessi da secoli: lo sviluppo tecnologico si è
limitato a migliorare la qualità delle lame e a prolungarne la durata. Già
alla metà dell'Ottocento però numerosi lavori venivano realizzati
meccanicamente.
Divertenti storie di
intagliatori dei secoli passati, tratte da fondi d'archivio, ci vengono riferite
da A. Bertolotti nei suoi studi dedicati ad artisti ed artigiani
"forestieri" - in parte provenienti da altri Stati italiani - che
lavorarono a Roma, potente centro di attrazione in quanto fulcro della
cristianità e sede della Corte papale. Si tratta principalmente di
testimonianze processuali, liti, denunce, contratti di lavoro: i documenti
relativi alla vita quotidiana delle popolazioni dei secoli scorsi giunti sino a
noi sono infatti per lo più circoscritti ai "contatti" che esse
avevano con le varie istituzioni.
Veniamo così a conoscere
nei particolari le traversie di molti artigiani, come quelle di un tal Camillo
Midei, intagliatore in legno a S. Caterina de' Funari, che nell'agosto del 1698
fu insultato, minacciato con la spada ed infine preso pure a piattonate dal
principe di Scavolino, per non essere riuscito a consegnare "a tempo
stabilito un saraceno da correre giostra". Circa un anno e mezzo dopo
ritroviamo lo sfortunato artigiano quale vittima di un furto: una notte del
gennaio 1700 gli fu infatti aperta la bottega, dalla quale vennero trafugate tre
cornici intagliate.
Particolarmente ricco di
storia e molto florido nei secoli passati, l'intaglio è una delle tecniche di
decorazione del legno più antiche e diffuse: la produzione romana si distinse
soprattutto nel Seicento, grazie alla realizzazione di preziose consoles
barocche finemente lavorate e dorate. L'avvincente mestiere dell'intagliatore
rischia però di scomparire in un futuro non molto lontano, anche perché
necessita di un lungo apprendistato, spesso impossibile da realizzare. Il
problema è comune a molte attività: mancano infatti adeguati corsi pubblici di
formazione professionale, mentre gli artigiani ancora operanti non hanno la
possibilità di far fronte ai costi e agli obblighi necessari per inserire i
giovani nelle loro botteghe.
A tutt'oggi sono pochi gli
intagliatori operanti a Roma, che vengono comunemente definiti ebanisti. Mentre
un tempo la qualifica era riservata a coloro che avevano un'abilità tale da
poter lavorare un legno di qualità pregiata quale l'ebano, attualmente la
denominazione è usata, in generale, per i migliori artigiani del legno, capaci
di realizzare intagli ed intarsi.
Accanto ad un ristretto
numero di maestri ebanisti vi è però, oggi come in passato, una grande
maggioranza di "semplici" falegnami, un mestiere la cui storia risale
molto indietro nel tempo.
Fino al 1539 i falegnami
appartenevano all'Università dei Muratori, insieme ai quali avevano costruito
la chiesa di S. Gregorio Magno in via Leccosa; in quell'anno però trenta
falegnami, in dissidio con altri membri del sodalizio, fondarono una propria
Confraternita indipendente intitolata a S. Giuseppe. Ottennero la chiesa di S.
Pietro sul carcere Mamertino, ma la ristrettezza del luogo li convinse a
costruire una nuova chiesa sopra quella già esistente. Forse per polemica, o
perché non riuscirono a trovare muratori disponibili, o chissà per quale altro
motivo rimasto sconosciuto, l'opera fu realizzata interamente in legno.
Deterioratasi ben presto, venne infine ricostruita in muratura: si tratta di
quella chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami a tutt'oggi esistente.
Nel maggio 1540 il nuovo
sodalizio fu riconosciuto come Arciconfraternita, ma soltanto agli inizi del
secolo successivo vi aderirono tutti i falegnami, molti dei quali erano rimasti
sino ad allora con i muratori. Nacque così l'Universitas Carpentariorum, i cui statuti furono approvati da Urbano
VIII nel 1624, insieme alla riconferma dei privilegi dell'Arciconfraternita, che
sopravvisse allo scioglimento della corporazione avvenuto nel 1801.
Nel corso del Seicento un
unico sodalizio economico riunì quindi i differenti artigiani del legno,
comprendendo più di venti mestieri, alcuni dei quali appaiono oggi curiosi
oppure semplicemente sconosciuti: bastari, bottari, carrozzari, catinari,
cembalari, cupellari, ebanisti, fabarche, facasse d'archibugi, facocchi, famole,
fatamburi, formari, intagliatori, leutari, mantaciari, mercanti di legname,
scatolari, sediari, tinozzari, tornitori, zoccolari.
Sul finire del Cinquecento
Thomaso Garzoni aveva minutamente descritto i compiti del falegname,
sottolineando che esso deve saper affilare gli attrezzi, riconoscere i
differenti legni, disegnare, intagliare ed avere gusto estetico, essere in grado
di squadrare il legno, "drizzare bene una tavola" - se necessario con
il fuoco - quando fosse "sguezza" o "torta".
Il falegname deve però essere anche un attento conoscitore del
formaggio. Abbiamo letto bene? Scorrendo alcune righe più avanti comprendiamo
il perché. Trascriviamo dunque questa inconsueta ricetta, per qualche moderno
alchimista che si voglia cimentare nella sua preparazione: "Si piglia
formaggio grattuggiato che sia magro, con acqua quasi bollente si lava tanto che
di esso non esca più grassezza; e poi si macina sopra una pietra liscia e vi si
getta sopra un poco di calcina bianca e rimenando benissimo insieme diventa
colla perfettissima".
Ancora oggi la colla usata
dagli artigiani più anziani, pur non avendo il formaggio fra i suoi componenti,
è comunque di origine animale, tanto che nelle vecchie botteghe si è colpiti
dal caratteristico odore (ci sia consentito l'eufemismo) dell'immancabile colla
cervione, scaldata a bagnomaria su un fornelletto perennemente acceso. Qualcuno,
per renderla più "forte" - attenzione, è un trucco del mestiere! -
la arricchisce persino con uno spicchio di aglio, ed è facile immaginare
l'aroma di questa mistura. Una sedia così incollata, ci viene però garantito,
può superare ogni prova di resistenza.
Oltre alla colla, anche
altri materiali tradizionali vengono tuttora usati nelle botteghe di
restauratori di mobili antichi, numerosi in una città dove la passione per
l'antiquariato, da sempre coltivata, si è ancor più diffusa negli ultimi anni.
Il settore ha dunque attratto nuovi artigiani, in molti casi giovani, ma non per
questo meno validi dei restauratori "storici".
Recentemente l'artigianato
legato al legno ha avuto qualche nuovo originale sviluppo grazie ad una proficua
collaborazione fra falegnami, designer e architetti, che ha portato alla
realizzazione di buoni manufatti artistici in stile moderno.
Contemporaneamente si è
però verificata la scomparsa di altri mestieri, superati da una più efficiente
produzione industriale.
Costruire botti è una vera
e propria arte che consente, assicurano gli intenditori, di dare al vino il
giusto sapore. Il mestiere è però tra quelli che lo sviluppo tecnologico ha
definitivamente condannato alla scomparsa. Ormai i recipienti in legno, tra
l'altro sempre più spesso prodotti industrialmente, sono utilizzati soltanto
per vini e liquori pregiati. Per gli altri vengono invece impiegati contenitori
di materiali differenti, vetroresina in particolare, più economici e durevoli
ma anche più leggeri ed agevoli da pulire.
Padroni delle tecniche e
dei segreti per curvare il legno, i pochi bottai rimasti costruiscono
manualmente, solo con l'ausilio di alcuni antichi strumenti sconosciuti al
profano (anche se macchine per la fabbricazione di botti esistono da più di un
secolo e mezzo!), recipienti di varie dimensioni e con differenti funzioni,
ottenuti però sempre tramite l'unione di assi chiamate doghe, strette insieme
con cerchi di ferro o di legno: oltre alle classiche botti realizzano barili,
tini, mastelli, adattando anche queste forme, negli ultimi anni, alla creazione
di mobili rustici. Una curiosità: in passato i bottai fabbricavano pure
"elettrodomestici", come testimonia la "lavatrice"
conservata nel Museo dell'Artigianato
Scomparso, una botticella in legno azionata a mano tramite una manovella.
Di bottai a Roma non se ne
trovano più. Hanno ormai chiuso, pochi anni fa, le ultime botteghe di
Testaccio, situate ai piedi della collina, accumulo artificiale di frammenti di
vasi e rottami vari, lungo le cui pendici c'erano un tempo numerose grotte,
celebri catacombe di un vino divenuto
famoso perché "di tanta gagliardia/ che fa cantar più assai di Anacreonte",
il poeta greco che celebrò il vino nei suoi versi.
Nella provincia, in
particolare ai Castelli Romani, ci sono gli ultimi superstiti di un mestiere
antichissimo - menzionato già da Plinio il Vecchio - decisi a non interrompere una tradizione che spesso si tramanda da
molte generazioni. Resistono ad esempio ad Albano Laziale, pur tra mille
difficoltà, i fratelli Sannibale, nell'antica e un po' buia bottega aperta dai
loro antenati nell'ormai lontano 1860. Ma si contano veramente sulle dita di una
mano i continuatori di questo mestiere faticoso e particolarmente delicato in
tutte le fasi della lavorazione, a partire dalla scelta del legname per la
fabbricazione dei recipienti, che deve avere caratteristiche di compattezza ed
elasticità. La quercia è ad esempio particolarmente adatta ma nel Lazio, per
la sua diffusione, viene in genere usato il castagno. Proprio accanto
all'officina di Albano, all'interno del cortile del palazzo, sopravvive una
delle poche caratteristiche fraschette
dei Castelli Romani, "ambiente naturale" per i lavori artigianali del
bottaio.
Vere e proprie "mosche
bianche" sono anche, al giorno d'oggi, i facocchi: numerosi nella Roma dei
secoli passati, fabbricavano le parti in legno di carri e carretti, mentre
quelle in ferro erano realizzate dal ferracocchio. Ora, al più, aggiustano le
poche carrozzelle rimaste.
Il mestiere ci viene
mirabilmente descritto, in versi, da Zefferino Colletti, che solo in ultimo ci
sembra scadere in una conclusione un po' troppo scontata: "Da li più mejo
ciocchi staggionati, / a forza d'accettòla e de scarpello, / sorteno razzi,
quarti e un botticello, / che te pareno pezzi aricamati. / L'accrocca tutti
assieme e, sur più bello, / pe falli arimané così incastrati, / je inarca
addosso er cerchio come anello, / levato da li tizzi aroventati. / E mentre che
lo sfredda, er bon facocchio / je leva li difetti, uno per uno, / menànno giù
mazzate a còrpo d'occhio. / Così nasce la ròta che poi, in fonno, / benanche
nun ce penza mai nisuno, / è stata lei che ha fatto cambià er monno".
Pochissimi sono anche i
tornitori ancora operanti a Roma, che si trovano in alcuni rioni storici quali
Esquilino, Borgo, Trastevere. Consigliamo, a chi non conosce il mestiere, di
gettare uno sguardo nelle loro botteghe: si rimane infatti a bocca aperta nel
constatare con quale sorprendente velocità questi artigiani, con l'ausilio del
tornio e di un attrezzo da taglio, danno forma al legno ricostruendo zampe di
tavoli e sedie, ma anche creando vasi, scatole ed altri oggetti.
Occorrono
una pazienza ed una grazia fuori dal comune per riuscire ad applicare sul legno,
appositamente preparato con un lungo ed accurato procedimento, quelle
particolari foglie di argento ed oro zecchino talmente sottili che si
accartocciano ad ogni minimo movimento, e che persino un respiro fa volar via.
E' quindi sorprendente la disinvoltura degli artigiani più esperti, la
naturalezza e la padronanza con cui usano queste lamine che soltanto una lunga
pratica consente di tenere a bada.
I doratori (o indoratori,
come venivano definiti un tempo), abili superstiti di un'attività in passato
particolarmente florida a Roma, sono oggi sempre più rari. E' comunque
possibile trovare ancora, nei rioni storici della città, ad esempio - ma non
solo - nei dintorni di via dell'Orso, alcune botteghe dove vengono
"curati" candelieri, cornici ed altri oggetti in legno dorato e
laccato.
Consigliamo dunque, a chi
non conosce questo affascinante mestiere, di dedicare un po' di tempo alla sua
scoperta. E' veramente interessante infatti osservare un doratore all'opera,
soprattutto nella fase dell'applicazione dell'oro (oppure dell'argento, perché
i procedimenti sono analoghi). Con una mano leggera, ma ferma e sicura,
l'artigiano solleva la foglia - disposta su un apposito cuscino e
precedentemente tagliata nelle misure desiderate - con un pennello di zibellino
sottile e piatto che, per farvi aderire la lamina, struscia sulla propria
guancia rendendolo così carico di energia statica. Questo rituale che lascia,
al termine del lavoro, simpatiche tracce luccicanti sul volto del nostro
"prezioso" artigiano, può comunque essere sostituito da uno
strofinamento del pennello su una qualsiasi superficie leggermente ingrassata,
procedimento forse più pratico ma certamente meno caratteristico. La foglia
viene infine adagiata sul legno precedentemente preparato ed inumidito con una
soluzione di acqua e colla animale.
Nei secoli scorsi le
tecniche della doratura a foglia furono applicate su larga scala ed ebbero a
Roma una notevole diffusione, come testimoniano la sfarzosità dei candelieri e
degli altari delle chiese ma anche la sontuosità delle cornici e delle
decorazioni dei palazzi nobiliari. Già nel 1836 però il Belli denunciava gli
scarsi guadagni dei doratori, approfittandone per lanciare una delle sue
consuete sferzate contro il lusso della Chiesa: "A' tempi de mi' nonno,
scertamente/ l'arte de l'indorà fruttava assai;/ ma mo cosa t'indori? un
accidente?/ Li secolari nun dànno lavoro/ perché sò pien de debbiti e de
guai,/ e a casa de li preti è tutto d'oro".
Nella
doratura a foglia (una tecnica antichissima che sembra risalire ad almeno 4000
anni fa!), come accade anche per numerose altre attività artigianali, i
materiali e gli attrezzi utilizzati - colla di coniglio, gesso di Bologna, bolo,
appositi pennelli e pietre d'agata per la brunitura - sono rimasti invariati nei
secoli, e così anche le differenti fasi della preparazione del supporto in
legno, dell'applicazione della lamina, della sua lucidatura e dell'eventuale
invecchiamento.
Sono invece mutate le
procedure di fabbricazione della foglia, che fino a pochi secoli fa veniva
battuta a mano dopo essere stata resa idonea da apposite presse; oggi,
ottenuta con un più veloce procedimento industriale, è ancora più sottile che
un tempo.
In passato esisteva quindi,
a Roma come altrove, la singolare figura del battiloro, artigiano che produceva
manualmente le sottilissime lamine - circa un decimillesimo di millimetro - a
colpi di martello e con accorgimenti di vario tipo. Distinti erano invece il
tiraoro, che riduceva l'oro in fili da utilizzare per i ricami di paramenti
ecclesiastici, uniformi ed abiti e il filaoro, mestiere prevalentemente
femminile che consisteva nell'avvolgere il prezioso filo da utilizzare per i
ricami intorno ad un'anima di seta.
Nel Seicento, secolo d'oro
(è proprio il caso di dirlo!) per tutti questi mestieri, le botteghe dei
battiloro erano concentrate nei pressi dell'attuale piazza del Fico, intorno a
S. Maria della Pace. Probabilmente coloro che praticavano questa attività non
erano allora più di una quindicina: un numero irrisorio, quindi, se rapportato
a quello di altre categorie artigiane dell'epoca. Ma il motivo che li portò,
nonostante l'esiguità numerica, ad unirsi in sodalizio, nel 1612, fu la
necessità di unire le forze per condurre una singolare ed un po' curiosa
battaglia, quella volta a risolvere un assillante problema: il reperimento delle
budella - di bue e di altri animali - indispensabili in una fase della battitura
del metallo. La questione non era però di facile soluzione, come potrebbe
apparire a prima vista, perché si trattava di un "bene" molto ambito
e conteso, fondamentale anche per altre produzioni, quale ad esempio quella
delle corde musicali. I battiloro riuscirono comunque, con una pressione sulle
autorità, ad ottenere una vittoria, dal momento che beccai,
pollaroli ed in genere tutti i venditori di carne furono obbligati a
cedere loro una parte delle tanto agognate budella.
Passeggiando
nel rione Monti, per le tranquille stradine intorno all'antica Suburra,
una rara zona di Roma ancora pullulante di botteghe artigiane, l'attenzione
viene catturata dal singolare laboratorio dove Beatrice, una giovane ma esperta
artigiana, con l'ausilio di pochi strumenti e di una sorprendente abilità,
trasforma semplici bacchette di vetro in candelieri, bicchieri, eleganti caraffe
ma anche in originali creazioni a forma di fiore o di conchiglia. Si tratta
forse dell'unica bottega della città in cui ci si dedica esclusivamente alla
soffiatura artistica del vetro, una tecnica importata dalla Liguria che non ha
solidi legami con la tradizione locale. I pochi altri laboratori ancora
esistenti a Roma si occupano prevalentemente di lavori per uso
chimico-farmaceutico dal momento che, anche se può apparire strano, mentre le
comuni provette sono prodotte a livello industriale, numerosi altri oggetti in
uso nei laboratori e negli istituti scientifici vengono ancora soffiati
artigianalmente.
Il
metodo usato nella bottega monticiana è poco noto a Roma, anche se risulta
certamente più pratico ed economico rispetto alla rinomata tecnica dei maestri
muranesi - che richiede una fornace ed una struttura industriale con costi
elevati - e particolarmente adatto per la creazione di oggetti di piccole e
medie dimensioni. Per la soffiatura a lume
bastano infatti una piccola fiamma e pochi utensili... oltre, ovviamente, ad una
buona dose di maestria e di determinazione!
La
città non ha avuto nei secoli passati una tradizione consolidata nel campo
della lavorazione artistica del vetro, mentre fu sempre sviluppata la produzione
di oggetti per uso comune: bicchieri, bottiglie, ma anche la classica e
caratteristica fojetta.
Numerosi sono invece oggi a
Roma i laboratori di vetrate artistiche, una tecnica che da alcuni decenni è in
continuo sviluppo, come testimonia anche l'interesse mostrato dai giovani ed il
fiorire di nuove botteghe e di numerosi corsi. La tradizione, creativamente
rinnovata, convive con nuove forme di espressività e con tecniche più recenti
(o modernizzate), spesso importate dall'estero ma non meno affascinanti, come la
vetrofusione, il collage, e soprattutto quella tessitura con rame saldato a
stagno (comunemente chiamata tiffany)
che produce ottimi risultati nella realizzazione di lampade ed altri originali
oggetti.
La parte del leone continua
però ad averla la vetrata tessuta a piombo, certamente dal momento in cui, agli
inizi del Novecento, questa antica tecnica fu rilanciata a Roma in tutto il suo
splendore. Risalente probabilmente al X secolo, consiste in una sorta di
"mosaico" di vetri colorati legati con fili di piombo e poi saldati e
stuccati affinché diventino più resistenti. La rinascita, espressiva e
tecnica, della vetrata artistica a Roma, ma soprattutto la capacità di
sviluppare le moderne potenzialità di metodi antichi, si devono alla proficua
collaborazione fra Mastro Picchio, al
secolo Cesare Picchiarini, e celebri artisti dell'epoca. L'abile maestro vetraio
- la cui bottega si trovava nella piazza Pozzo delle Cornacchie (oggi intitolata
a Giuseppe Toniolo) e, successivamente, in piazza S. Salvatore in Lauro - riuscì
infatti a fungere da catalizzatore, agli inizi del secolo, per artisti quali
Umberto Bottazzi, Vittorio Grassi, Paolo Paschetto e Duilio Cambellotti, insieme
ai quali organizzò alcune mostre e realizzò pregevoli opere, tra cui le
vetrate, recentemente restaurate, per la Casina
delle civette di Villa Torlonia.
Picchiarini effettuò anche
numerosi lavori a carattere religioso, proseguendo la tradizione secolare della
vetrata, che a lungo è stata usata quasi esclusivamente quale elemento
decorativo nelle chiese e che soltanto in un periodo relativamente recente è
divenuta parte integrante dell'architettura e dell'arredamento. L'opera di Mastro
Picchio e del suo gruppo fu particolarmente importante dal momento che, a
Roma come altrove, la vetrata era progressivamente scaduta a semplice pittura,
anche se "a gran fuoco" (la tecnica chiamata grisaille),
e ad una produzione di scarso valore, che spesso portava persino alla
realizzazione di vetrate opache, che toglievano dunque al vetro la sua
principale caratteristica, fonte di quel fascino sempre rinnovato nel tempo.
Sensibile interprete, più
che semplice esecutore, dei cartoni degli artisti, Picchiarini - che per un
periodo insegnò anche l'arte della vetrata nell'Istituto del S. Michele a Ripa
- ci ha lasciato un prezioso libro di "appunti di vita di mestiere e
d'arte", dal titolo Tra vetri e
diamanti. Ad un certo punto, non riuscendo più a gestire il laboratorio a
causa di disturbi nervosi, lo cedette ad un suo collaboratore, quel Giulio
Cesare Giuliani operante nella città già nel 1900 e i cui eredi proseguono
ancora oggi nell'attività intrapresa dal celebre maestro.
La
ceramica, lavorazione e restauro
Nella lavorazione artistica
della ceramica Roma non ha avuto, nei secoli passati, un ruolo primario. Più
importante è sempre stata invece la produzione di oggetti per uso comune,
mestiere antichissimo che viene ricordato persino da un intero quartiere,
Testaccio, sorto proprio su una montagna di cocci.
La
cottura delle diverse argille modellate manualmente con l'ausilio del tornio -
uno strumento che ha sorprendentemente mantenuto la stessa forma a distanza di
migliaia di anni, con la sola differenza che oggi può essere azionato
elettricamente - risale addirittura all'epoca preistorica, ma un forte sviluppo
dell'arte della ceramica per uso ornamentale si ebbe in Italia solo nel
Rinascimento. Alcune fabbriche e scuole sorsero a Roma nel Cinque-Seicento - in
genere però ad opera di "stranieri", provenienti cioè da altri stati
italiani - ma si ricordano i nomi di pochi maestri, che oltretutto lavorarono
principalmente per conventi e farmacie, come Diomede Durante e Giampaolo Savino.
La produzione della
ceramica per uso quotidiano è invece stata, in passato, molto diffusa, dal
momento che solo da alcuni decenni la terracotta - sostituita da alluminio,
vetro o plastica - non è più largamente usata per pentole e tegami. Le antiche
botteghe sono quasi ovunque scomparse, tanto che i cocci
artigianali sono oggi molto ricercati; i pochi "terracottari"
superstiti sono sparsi nei vari paesini della provincia più che nella città.
Fondamentale fu anche,
nella Roma del passato, la fabbricazione di mattoni, tegole ed altri materiali
per l'edilizia, che sfruttava le cave di argilla dei Monti di Creta per il
reperimento delle materie prime e, per la cottura, le numerose fornaci esistenti
nella città, a cui è tuttora dedicata una via.
E' sempre il nome di una
strada, situata però nell'antico quartiere di Trastevere, a ricordare ancora
oggi i vascellari, denominazione che nulla ha a che vedere con la costruzione di
imbarcazioni ma che invece, per una classica deformazione dialettale romanesca,
indica i vasellari, cioè i vasai e fabbricanti di boccali ed oggetti in coccio.
Questi artigiani si erano stabiliti nello storico rione perché la zona
permetteva, per la vicinanza con il Tevere, il rifornimento di acqua e di terre,
ma anche il commercio dei prodotti nel vicino porto di Ripagrande.
Riuniti in un sodalizio,
questi artigiani organizzarono ogni anno, fin dopo il 1870, "ne
ll'ottavario der Corpusdommine"
una processione per le vie di Trastevere, probabilmente la più celebre tra
quelle promosse dai differenti mestieri nella Roma dell'epoca. "Era una
bbella precissione - ci dice Giggi Zanazzo, attento osservatore delle tradizioni
romane - perché cciaveva uno de li più bbelli stennardi de Roma. Se diceva de
li Bbucaletti perché 'sta precissione
era fatta da la compagnia de li Vascellari, che in quer tempo, ortre a ffa' le
pile, li tigami, li dindaroli, li scardini eccetra, co' la créta de fiume, ce
faceveno puro li bbucali de còccio
che anticamente invece de le fojette e dde li mèzzi de vetro, s'addropàveno
pe' sservì er vino in de ll'osterie".
Agli annosi problemi di
"precedenze", che assillavano la ricorrenza e che, più in generale,
turbavano tutte le processioni della Roma papale, Belli aveva persino dedicato,
nel novembre 1831, un divertente sonetto intitolato La compagnia de' Vascellari: "Si ccaso mai, sor faccia de
pangiallo, / l'arreggemo noi puro er bardacchino. / Ch'edè? nun zemo indeggni
de portallo? / E vvoi chi ssete? er fio der re Ppipino? / Nun t'aricordi ppiù,
bbrutto vassallo, / de quelli scarponacci da bburino / quanno a le mano sce
tienevi er callo / e mmaggnavi a ppagnott'-e-ccortellino? / Oggi che cc'è er
Zantissimo indisposto / potressi armanco usà pprudenza, e a cquelli / che ssò
pprima de té' ccedeje er posto. / Er bardacchino tocca a li fratelli / de
segreta: epperò ssor gruggno tosto / Levàtevesce for da li zzarelli"...dove,
anche se qualche parola può risultare poco chiara - indeggni sta ad esempio per degni,
indisposto per esposto - il senso dell'ultima esortazione, nonostante tutto, è di
immediata comprensione!
Vascellaro
"per ricchi", o forse vero e proprio artista, fu Giovanni Trevisan,
detto Volpato che, giunto da Venezia, introdusse nella sua fornace la tecnica
del biscuit e realizzò, insieme a
circa 20 abili operai, pregiate statuette che venivano poi vendute nel celebre
negozio di Merico Cagiati o nelle altre botteghe che si trovavano lungo il
Corso. Ma questi oggetti avevano prezzi proibitivi. I più dovevano quindi
accontentarsi dei prodotti di altre fornaci, come quella di Nino La Vista in
Borgo Vittorio.
Di alcuni vasai
dell'Ottocento è rimasta menzione sino ad oggi solo perché divennero celebri
per altri motivi: è il caso del baritono Antonio Cotogni, trasteverino, ma
anche di Bartolomeo Pinelli che da giovane aveva seguito le orme del padre
Giovan Battista realizzando anche statuette per i presepi. Quasi tutti i
vascellari infatti, nel periodo natalizio, si trasformavano in pupazzari, interpreti di un'antica arte popolare non del tutto
scomparsa a Roma. Tramandata di padre in figlio, vive ancora nelle botteghe e
case-laboratorio di pochi estrosi superstiti, situati alle porte della città,
che ricostruiscono con vera maestria paesaggi e scene di vita quotidiana. I loro
prodotti si trovano in genere nelle bancarelle che, fra immancabili polemiche,
ogni anno ricompaiono immutate a piazza Navona. Accanto a schiere di statuine in
plastica prodotte industrialmente spicca qualche pregevole lavoro artigianale in
terracotta dipinto a mano, ma anche la ricostruzione di scorci di una Roma
scomparsa, ripresi dagli acquerelli di Roesler Franz e le particolari grotte in
sughero di uno "storico" artigiano, che prosegue una tradizione
familiare iniziata intorno al 1820.
Negli ultimi anni la città
ha assistito ad una generale riscoperta dell'arte della ceramica, pur se la
produzione artigianale ha risentito negativamente della prepotente irruzione sul
mercato di prodotti di importazione realizzati in paesi in cui la manodopera ha
un costo bassissimo.
A tecniche e metodi molto
antichi, come la lavorazione a colombini - quella sorta di
"bastoncini" in creta che, disposti uno sull'altro, permettono di
realizzare manualmente vasi ed altri oggetti - si sono affiancati ben più
sofisticati macchinari, in una collaborazione fra artigianato e industria che in
alcuni casi ha prodotto ottimi risultati. Accanto ad una schiera di hobbisti e
dilettanti sono emersi artisti ed artigiani di un certo livello, in grado di
coniugare la tradizione romana con tecniche di altra provenienza, come il raku,
di origine giapponese.
Un
altro mestiere forse poco conosciuto, ma certo non meno prezioso, è il restauro
di ceramiche, porcellane, maioliche, attività che per lungo tempo è stata
esercitata dagli stessi ceramisti. Nei pochi laboratori operanti a Roma, spesso
piccoli o nascosti, colmi di boccette, colori, fornellini a spirito, bisturi e
collanti, gli oggetti danneggiati - vasi e soprammobili di particolare pregio o
soltanto tazzine e piatti importanti per il loro valore affettivo - riacquistano
l'iniziale splendore, in virtù della maestria dei restauratori ma anche grazie
ai moderni e "miracolosi" materiali (adesivi, resine, stucchi,
consolidanti) che, frutto di una lunga ricerca scientifica, favoriscono la
risoluzione ottimale dei differenti problemi. L'effetto finale è in genere
sorprendente: neanche uno sguardo attento è infatti in grado di distinguere le
parti e le decorazioni ricostruite!
Tra
i laboratori alcuni sono specializzati in settori quali il restauro archeologico
o quello degli smalti. Colpiscono il passante le rare botteghe ancora oggi
dedicate alla "cura" delle bambole, quei locali particolari e talvolta
un po' inquietanti, quasi da film dell'orrore, dove gambe, braccia e teste
sbucano da tutte le parti.
La
lavorazione dei metalli preziosi e comuni
Nei pressi di via Giulia,
annessa alla piccola chiesa di S. Eligio degli Orefici, è tuttora attiva
un'associazione, l'Università e Nobil
Collegio di S. Eligio che, erede dello storico sodalizio di mestiere, si
propone di proseguire e sviluppare l'antica tradizione attraverso
l'organizzazione di corsi, conferenze e premi per apprendisti orafi.
L'oreficeria, sempre
florida a Roma nel corso dei secoli per la diffusa presenza di chiese ma
soprattutto della corte papale, ebbe in alcuni periodi storici una fortuna
veramente notevole. Lo sfarzo imperante nel Cinque-Seicento diede ad esempio un
forte impulso all'attività, la cui committenza era rappresentata essenzialmente
dalle alte gerarchie ecclesiastiche e da famiglie nobili. La produzione romana -
realizzata anche da valenti maestranze "straniere" operanti nella città,
in particolare toscane e lombarde - fu ovviamente indirizzata in notevole misura
verso oggetti sacri e rituali, incrementandosi quindi in concomitanza con
particolari eventi quali gli Anni Santi.
Sulla base della ricca
documentazione relativa alle famiglie di orafi ed argentieri romani, a tutt'oggi
conservata nell'Archivio di S. Eligio, è stata redatta la monumentale opera di
G. C. Bulgari "sugli orefici, gli argentieri, i gemmari e i coronari attivi
nella città di Roma fra il XIV secolo e il 1870". Alcuni studi più
recenti hanno invece messo in luce singole figure operanti tra il Cinquecento ed
il secolo successivo, come Fantino Taglietti - che lavorò per i Barberini e
realizzò numerose opere per il palazzo del Campidoglio - o la famiglia Vanni,
della cui ricca produzione è però oggi possibile ammirare solo il tabernacolo
nella basilica di S. Giovanni in Laterano.
Nella Roma dei secoli
scorsi gli orefici erano concentrati in via del Pellegrino: nel 1680 per questi
artigiani divenne addirittura un obbligo, imposto dalle autorità, quello di
"habitare ed havere le botteghe nel Pellegrino e vicoli annessi". Il
provvedimento suscitò però una serie di proteste, come risulta dalla supplica
inviata al papa da alcuni orefici, in cui si chiedeva di non essere "tanto
aggravati nella mutatione dell'habitatione dalle gravezze di nove pigioni
esorbitante nelle case del Pellegrino", sottolinenando che gli artigiani
non vi si recavano "di lor spontanea volontà ma per obedire prontamente
alla S.tà V.ra" e chiedendo che "almeno i più bisognosi e poverelli
siano esentati d'andar ad habitare in detta strada".
Gli orefici, inizialmente
organizzati in una corporazione che comprendeva pure ferrari e sellari, nel 1508
fondarono una propria Università, a cui aderirono anche gli altri lavoranti di
metalli e pietre preziose.
Una regolamentazione
scritta dell'attività si trova già negli statuti di Roma del 1358, in cui si
stabiliva che l'argento dovesse avere un "punzone" di garanzia, cioè
un bollo. Forme più severe di controllo si ebbero però solo dagli inizi del
Cinquecento: da allora orefici ed argentieri furono obbligati ad apporre su
tutti gli oggetti prodotti una bollatura del titolo, controllata poi da una
apposita commissione che doveva giudicare, oltre alla qualità delle opere e
alle contraffazioni, anche l'abilità degli aspiranti maestri orafi, nella prova
che si svolgeva dopo un tirocinio a Roma di almeno tre anni.
Ogni orefice aveva un
proprio "segno", impresso su una placchetta: gli originali, registrati
e depositati, si trovano ancora oggi presso l'Archivio di S. Eligio. Ma le alte
gerarchie ecclesiastiche talvolta garantirono, ai "loro" artigiani,
l'esenzione dalla bollatura, e quindi dalle tasse, circostanza che rende oggi
difficile l'individuazione degli autori di alcune opere.
Nelle fiorenti botteghe
romane, dove abili maestri applicavano e rielaboravano i canoni impartiti dalle
arti monumentali, giunsero anche celebri artisti o apprendisti del calibro del
Cellini, il cui soggiorno romano è ricordato da una targa in largo Tassoni:
delle sue produzioni rimane però soltanto, a Vienna, una saliera per Francesco
I.
Il problema della
distruzione, nel tempo, delle opere di oreficeria - che riguarda soprattutto gli
oggetti profani perché quelli cerimoniali, conservati in chiese e musei, hanno
avuto in molti casi una sorte migliore - è purtroppo più generale: quasi tutti
i lavori appartenuti alle famiglie nobili sono andati persi, rifusi per il
mutamento del gusto, riconvertiti in moneta, finiti nelle requisizioni eseguite
durante il pontificato di Pio VI prima e l'occupazione delle truppe napoleoniche
poi.
Tra
le pregevoli testimonianze di orafi operanti a Roma si può ricordare la coppia
di candelieri eseguita da Antonio Gentili su commissione del cardinale
Alessandro Farnese e donata nel 1582 alla Basilica di S. Pietro, dove si trova
anche il grande medaglione in bronzo del monumento funebre di Cristina di Svezia
realizzato dal maestro argentiere Giardini.
Dopo un periodo di
decadenza, l'arte orafa romana ritrovò il suo splendore con il Liberty: nella
città operarono infatti artisti di rilievo quali Renato Brozzi, Duilio
Cambellotti, Michele Guerrisi.
Molto antica a Roma è
anche la lavorazione di metalli comuni - per oggetti di uso quotidiano, armi e
prodotti ornamentali - oggi però quasi totalmente industrializzata.
Il ferro battuto, caduto in
disuso perché sostituito da materiali quali la ghisa, ebbe un particolare
sviluppo nel periodo barocco, come tuttora ricordano i cancelli di alcuni
palazzi e chiese. Il rame, un tempo metallo prezioso perché raro, si diffuse
invece nella seconda metà del Settecento grazie alle importazioni: da allora fu
molto usato per scopi domestici. Oggi rimane solo una limitata produzione
artigianale di oggetti decorativi in alcuni piccoli centri della provincia.
E' del 1834 un amaro
sonetto del Belli dedicato al ferraro:
"Pe mmantenè mmi mojje, du' sorelle, / e cquattro fijji io so c'a sta
fuscina / comincio co le stelle la matina / e ffinisco la sera co le stelle. / E
cquanno ho mmesso a rrisico la pelle / e nnun m'areggo ppiù ssopr'a la schina,
/ cos'ho abbuscato? Ar zommo una trentina / de bbajjocchi da empicce le bbudelle.
/ Eccolo er mi' discorzo, sor Vincenzo: / Quer chi ttanto e cchi ggnente è 'na commedia / che mm'addanno oggni
vorta che cce penzo. / Come!, io dico, tu ssudi er zangue tuo, / e trattanto un
Zovrano s'una ssedia / co ddu' schizzi de penna è tutto suo!".
Un'arte
molto antica, quella del mosaico - usata da greci e romani già in epoca
precristiana per comporre pavimenti e, successivamente, nelle decorazioni
parietali - sta vivendo, da alcuni anni, un periodo di rinnovato interesse e di
positiva rivalutazione. La tecnica, profondamente radicata nella tradizione
romana, si esprime oggi attraverso quadri dai moderni disegni oppure tramite
riproduzioni di opere classiche, ma anche e soprattutto come raffinato decoro
per valorizzare tavoli, lampade, cornici e oggetti d'arredamento in genere.
L'ostacolo
principale per una sua nuova diffusione è, attualmente, l'elevato costo dei
lavori, talvolta proibitivo, problema però difficilmente eludibile dal momento
che il taglio e la disposizione delle tessere - le piccole parti di smalti o
pietre naturali di cui è composto un mosaico - richiedono tempi molto lunghi.
La
tradizione musiva fu molto florida nella città dei secoli passati, e numerose
chiese romane - S. Maria Maggiore, S. Paolo, S. Maria in Trastevere... l'elenco
completo sarebbe assai lungo - conservano ancora importanti tracce di un'arte
preziosa ma in alcuni periodi male interpretata: resa troppo simile alla
pittura, ritenuta deperibile, fu infatti talvolta utilizzata sostanzialmente per
la creazione di "dipinti più resistenti", e perse quindi le sue
peculiarità.
I
mosaicisti attualmente operanti a Roma realizzano lavori a soggetto sacro,
riproduzioni musive d'arte, oggetti di arredamento, ma alcuni si occupano anche
di restauro di opere antiche. La lavorazione del marmo non è però limitata
alla composizione di mosaici. Ancora oggi, oltre agli artigiani che producono
lapidi, targhe e lastre per rivestimenti di vario tipo, vi sono scultori,
intarsiatori, incisori, insomma veri e propri artisti della materia.
L'arte del marmo, molto
antica, rifiorì a Roma dopo l'incendio normanno del 1080, quando vennero
innanzi tutto ricostruite le antiche basiliche distrutte. Pavimenti, tombe e
portali di numerose chiese furono decorati con composizioni musive realizzate
con marmi di molteplici tonalità cromatiche.
Roma, trasformata in una
sorta di enorme deposito di marmi di epoca imperiale era allora una città unica
per la disponibilità "naturale" di materiali: con la spoliazione e la
distruzione dei vecchi monumenti si ricostruirono ed abbellirono chiese e
palazzi nobiliari. Talvolta vennero però impiegati anche nuovi materiali di
scavo - nei dintorni di Roma esistevano cave di travertino e di altri marmi - la
cui estrazione comportava comunque costi più elevati.
Di
particolare rilievo fu, per alcuni secoli, la scuola cosmatesca, la cui
denominazione ha dato origine ad una serie di dispute: mentre in un primo tempo
essa veniva identificata con una famiglia il cui capostipite si chiamava Cosma,
successivi studi hanno dimostrato che i "cosmati" si dividevano in due
rami familiari, i Tebaldo e i Mellini, molto attivi anche fuori della città,
affiancati da famiglie "rivali" di marmorari quali i Vassalletto.
Il declino della tarsia
cosmatesca, e i suoi ultimi pregevoli lavori, risalgono al Quatrocento: il
secolo successivo può dunque essere considerato il periodo della nascita
dell'intarsio moderno. A Roma, la tecnica fu impiegata per realizzare piani di
tavoli ma anche lastre tombali, altari e cappelle: fra i principali artefici si
ricorda Giovanni Menardi detto il Franciosino.
Verso la fine del Cinquecento alle tarsie geometriche si affiancarono disegni
sempre più complessi, vere e proprie pitture in pietra.
Gli artisti del marmo
componevano quindi pavimenti e mosaici, rivestivano pareti ed innalzavano
colonne. Vi erano però anche semplici scalpellini e tagliapietre, mestiere che
alla fine del Cinquecento Thomaso Garzoni definiva faticoso ma non artistico -
consistente nello "scarpellar così alla grossa tutte le sorti di marmi il
che si chiama abozzare" - e soprattutto rischioso perché, mette in guardia
il nostro autore, quando "una scheggia di sasso ti coglie in un'occhio, ti
fa veder le stelle".
Sempre
in relazione al marmo va segnalata l'arte, molto antica, della decorazione a
stucco, che prosperò in epoca romana e rifiorì nel Rinascimento soprattutto
per merito del Ricamatore, al secolo Giovanni da Udine, che operò a Roma alla
scuola di Raffaello e fu autore di pregevoli decorazioni che riprendevano la
plasticità degli antichi stucchi romani, composte con un impasto di polvere di
travertino e marmo. L'arte ebbe successivi sviluppi sempre più monumentali e
venne impiegata anche per decorazioni di esterni.
Le origini dell'Università
dei Marmorari sono particolarmente remote: il primo statuto di cui è rimasta
traccia risale infatti al 1406, convenzionalmente stabilito come anno di nascita
del sodalizio. Dopo una crisi, nel Cinquecento, dovuta al distacco di alcuni
scultori - che non volevano confondersi con artigiani quali gli scalpellini -
nel secolo successivo la corporazione riacquistò il suo prestigio e, con esso,
l'adesione di grandi artisti. Sciolta nel 1801 e ricostituita nel 1852,
l'Università è tuttora esistente: il suo archivio si trova presso l'Accademia
di S. Luca.
L'arte
dei tessuti. Si sviluppò a Roma
durante il Rinascimento quando, chiamati dai papi, i maggiori artisti dell'epoca
affluirono nella città per la realizzazione di opere d'arte. Molti di essi si
cimentarono infatti nell'esecuzione di disegni per tessuti o arazzi. Anche i
maestri romani del Sei-Settecento eseguirono lavori di notevole pregio,
destinati soprattutto ad un uso ecclesiastico.
Con il termine tessitura si
intende però la realizzazione di manufatti di vario tipo: arazzi (di cui è
nota la produzione dell'ospizio del S. Michele), tappeti ma anche ricami.
Strumento essenziale del
mestiere è il telaio, diverso a seconda del tessuto che si vuole ottenere.
Generalmente, e semplificando, per l'esecuzione degli arazzi si usano i telai
verticali, mentre per le stoffe destinate all'abbigliamento e all'arredamento
quelli orizzontali. Numerosi manufatti si confezionano intrecciando, per mezzo
di una spola, i fili paralleli - che costituiscono l'ordito - con un filo ad
essi perpendicolare, detto trama. Per la realizzazione di tappeti, i fili
(prevalentemente di lana, più raramente di seta) vengono invece annodati tra
loro, con una media di 10-15 nodi per cm2.
Maggiore è il numero di nodi, superiore la qualità del tappeto. Attualmente a
Roma sono pochi i laboratori di tessitura; in alcuni di essi si pratica pure il
restauro dei tappeti antichi.
La tecnica del ricamo,
riconducibile a questo settore, consiste invece nell'eseguire, con l'ausilio di
ago e filo, motivi ornamentali su un tessuto, consentendo la realizzazione di
lavori di particolare finezza e notevole pregio. Si tratta però di un'attività
artigianale destinata a scomparire in quanto richiede tempi di lavorazione
lunghissimi e spesso non quantificabili economicamente.
Artigianato
del cuoio e dei pellami. Dalla
confezione di indumenti per ripararsi dal freddo alla legatoria dei libri, dalla
realizzazione di cinte e borse fino alle selle e ai finimenti per i cavalli, la
pelle animale è stata usata dall'uomo fin dai tempi più antichi. Le attività
legate al pellame sono varie. Alcuni mestieri sono però oggi in via
d'estinzione, come quello del sellaio di cui - da quando l'automobile ha
sostituito il cavallo - è rimasta traccia solo in alcuni piccoli centri attorno
a Roma.
L'artigianato del cuoio e
dei pellami ebbe la sua massima diffusione nei secoli XV e XVI, quando le
minuziose e raffinate tecniche di lavorazione sino ad allora applicate alla sola
legatoria vennero impiegate anche per la realizzazione di oggetti personali
quali cinte, borse, cofanetti ed altro. Le pelli più usate sono quelle di bue e
di vacca in quanto, dure e pesanti, si prestano bene per la produzione di
calzature e selle; molto diffuse sono anche quelle di vitello e di capra che, più
morbide ed elastiche, vengono usate per la pelletteria elegante oppure, decorate
con impressioni in oro zecchino, nel campo della legatoria. Renne e camosci sono
usati prevalentemente nell'abbigliamento.
Espressione dello scarso
rispetto dell'uomo nei confronti degli altri esseri viventi è l'impiego delle
pelli di molti animali persino per scopi ornamentali. E' il caso della pelle di
coccodrillo, pitone, lucertola o addirittura di quella di pescecane, che negli
anni '20 e '30 di questo secolo, opportunamente trattata, era usata per
rivestire mobili (zigrino).
Bucatori, aghi e fili,
sgorbie, trincetti, fustelle, punteruoli, stampini sono alcuni degli strumenti
utilizzati per la lavorazione del cuoio e delle pelli, un mestiere
particolarmente dannoso per la salute di chi lo pratica a causa dei numerosi
materiali nocivi impiegati, quali collanti e aniline colorate.
La
lavorazione del giunco e del vimini.
E'
uno dei più antichi mestieri diffusi a Roma: dagli artigiani che intrecciavano
il vimini - viminatores - avrebbe
infatti preso il nome uno dei sette colli di Roma, il Viminale. Ancora oggi
nelle strade e nei vicoli attorno a via dei Sediari lavorano numerosi
impagliatori. Ma capita pure di incontrare in giro per la città, anche se
sempre più raramente, anziani artigiani provenienti soprattutto dalla
provincia, intenti ad intrecciare fili di paglia per la realizzazione di cesti o
per restituire ad una vecchia sedia la sua funzione originaria.
Oltre alla paglia delle
campagne laziali, per la confezione di manufatti possono essere usati vimini e
giunco, di provenienza orientale. Il giunco, che unisce le caratteristiche di
flessibilità, leggerezza e robustezza, è spesso utilizzato per la costruzione
di mobili.
Trompe
l'oeil, ovvero la pittura illusoria.
Un micio tigrato disteso sul piano di uno scaffale colmo di libri scruta
sornione i passanti dall'interno di un negozio, uno stupendo viale alberato
appare dietro le vetrine di un locale del centro... eppure gatto, libreria e
alberi non sono altro che una finzione! Bisogna riconoscerlo, i trompe l'oeil
a volte riescono veramente ad ingannare l'occhio. In fondo perché
meravigliarsi? Già il loro nome dovrebbe mettere in guardia.
Fra
tanti mestieri in via di estinzione questa tecnica di decorazione, usata per
valorizzare mobili e oggetti ma anche come pittura murale, attraversa invece un
periodo di vero e proprio boom; negli
ultimi anni è infatti entrata prepotentemente a far parte dell'arredamento di
abitazioni e negozi. Superando i limiti della realtà, permette di esaudire
desideri altrimenti irrealizzabili: ad esempio quello di avere, in una casa in
pieno centro, una finestra aperta su un tranquillo e silenzioso paesaggio campestre
dal cielo sempre azzurro.
Hanno
abilità manuale ma anche molta fantasia gli artigiani-artisti della
decorazione, con le loro botteghe piene di campioni di travertini o graniti
uniti da una sola caratteristica: quella di essere rigorosamente finti. Alcuni
sono anche scenografi, abituati a cimentarsi con gli effetti speciali dei film,
in grado quindi di realizzare "falsi" di ogni genere, greche o
decorazioni floreali, stencil e grisaille, riproduzioni di opere classiche e
moderne.
In una città come Roma,
dove la tradizione artigiana è consolidata da tempo immemorabile, sono numerose
le famiglie in cui il mestiere si tramanda di generazione in generazione da
oltre un secolo. Ovviamente sarebbe stato impossibile, per motivi di spazio e
per le caratteristiche stesse di questo lavoro, citare molti casi. Ne abbiamo
quindi scelti alcuni, sulla base delle nostre esperienze e conoscenze, anche se
sappiamo che tanti altri, ugualmente significativi, avrebbero meritato di essere
menzionati. Il nostro auspicio è che questo lavoro risvegli l'interesse di
artigiani con cui ancora non siamo entrati in contatto, stimolando la
segnalazione di nuove storie che avremo certamente modo di citare altrove.
La ricostruzione delle
vicende è avvenuta attraverso le testimonianze dirette degli ultimi discendenti
delle famiglie artigiane, ma in alcuni casi il ricordo si è dimostrato un po'
confuso, soprattutto per ciò che riguarda le date ed i fatti più remoti. E'
però impossibile verificare l'attendibilità delle notizie ricevute perché
l'artigianato, in quanto storia quotidiana delle classi popolari, storia di
"gente comune", non è composto solo dai dati reperibili nei testi
scritti o nei documenti d'archivio; è anche tradizione tramandata oralmente,
con molte imprecisioni ma certamente con un'inconfondibile vivacità.
Una circostanza,
inaspettata, ci ha piacevolmente sorpreso: la nostra richiesta di raccontare
storie familiari ha infatti fornito a certi artigiani il "pretesto"
per andare a spulciare vecchi documenti e ricordi dimenticati, oppure persino
per cercare riscontri archivistici alle tracce presenti nella propria memoria o
in quella di più anziani parenti.
La
ditta Lucenti, fonderia di campane
Intorno alla metà degli
anni Ottanta Antonello Trombadori scriveva: "A Roma nun ze fanno più
campane/ e la Ditta Lucenti in Borgo Pio/ cor vecchio tornio e quer che ciarimàne/
ar lavoro ja detto guasi addio". Da
allora, nei dieci anni successivi, la crisi si è fatta sempre più pesante,
tanto che alla fine la storica fonderia, l'unica specializzata a Roma nella
fusione delle campane (in tutta Italia i "campanari" sono ormai meno
di dieci!), schiacciata da difficoltà e problemi di vario tipo ha serrato i
battenti dei suoi ultimi locali, situati in vicolo del Farinone presso il
Passetto di Borgo. Il tardivo interesse istituzionale non è infatti riuscito a
salvare l'officina, giunta agli onori della cronaca quando era già sull'orlo
della chiusura, dopo quasi quattro secoli e mezzo di attività.
L'ingegner Camillo Lucenti,
che ha trascorso circa cinquant'anni all'interno della fonderia, è
sopravvissuto soltanto un brevissimo periodo dopo la fine di quel suo
particolare mondo, quell'officina rimasta immutata negli anni, dove la fioca
luce filtrata dal lucernario illuminava debolmente gli antichi strumenti da
lavoro disposti intorno alla grande fornace. L'ultima campana, in questo angolo
un po' fuori dal tempo, è stata fusa nel 1993.
Il figlio Francesco non ha
però, a tutt'oggi, abbandonato il mestiere, specializzandosi in un'attività
certo meno affascinante di quella dei suoi antenati ma sicuramente più in linea
con i tempi, la riparazione degli impianti elettrici dei campanili, ormai quasi
ovunque sostituiti alle storiche campane che, per secoli, hanno scandito la vita
cittadina.
Qualche campana comunque la
produce ancora, appoggiandosi ad un'officina che si trova alle porte della città.
Ed è l'unico artigiano a Roma a proseguire la tradizione, dal momento che altre
fonderie, tuttora in funzione, non sono specializzate in questo tipo di
fabbricazione. Di recente, in seguito alla costruzione di nuove chiese in vista
del giubileo, il lavoro di fusione ha avuto un nuovo periodo "di
gloria", ma certamente effimero. Permane infatti un problema di non poco
conto: le campane hanno un costo molto elevato, che porta le chiese a scegliere
di investire il denaro che sarebbe necessario per l'acquisto di un esemplare
medio (qualche milione di lire) in altre attività, magari nell'allestimento di
un campo di calcetto! Per motivi economici quindi oggi vengono, al più,
prodotte campane di piccole dimensioni.
La Pontificia Ditta Lucenti
ha una lunghissima storia: la sua attività risale infatti al 1550, come risulta
dalla data incisa sulla campana del convento dei Padri Cappuccini nella chiesa
della Misericordia in via Veneto. Ha firmato, oltre a numerose campane del
Centro Italia, anche oggetti in bronzo o metalli vari, statue, cancelli, e
persino tombini. Pietro Romano,
nel suo volumetto sulle campane di Roma, cita molte volte la famiglia, definendo
i suoi membri "i fonditori di campane più attivi e più operosi
nell'Urbe".
Fra i principali lavori
della ditta si ricordano quelli di Ambrogio Lucenti, che nel 1627
ha fuso insieme ad alcuni soci le quattro colonne del baldacchino
berniniano ed ha realizzato la campana vaticana chiamata della
predica (ma popolarmente conosciuta come chiacchierina);
rottasi nel 1891, fu rifatta nel 1893, ancora una volta dai Lucenti. Si legge in
una cronaca dell'epoca: "Martedì scorso venne fusa la nuova campana nello
stabilimento Lucenti in via dei Corridori in Borgo, in presenza di monsignor De
Nekere economo della fabbrica di San Pietro. Per la fusione sono occorsi otto
quintali e 50 chilogrammi di bronzo, ed è riuscito un bel lavoro, benché fatto
in venti giorni. Ieri mattina alle 10 la campana fu benedetta, dal cardinale
Ricci-Parracciani arciprete della basilica Vaticana. Indi dal sanpietrino Ercole
Scalpellini e dal figlio del fonditore, Ernesto Lucenti, fu suonata con pochi
rintocchi. Nel pomeriggio fu messa al posto e verso sera venne suonata a distesa
per circa un quarto d'ora".
Nella seconda metà del
Seicento fra i Lucenti si era invece distinto Girolamo, che fu anche un valido
scultore. Lo si ricorda, tra l'altro, quale autore dell'angelo "che tiene
li chiodi" situato su ponte S. Angelo. Nei primi decenni di questo secolo
Eugenio Lucenti ha invece firmato la Campana di Dante Alighieri, che i Comuni
italiani donarono alla città di Ravenna nel 1921, a seicento anni dalla morte
del celebre poeta.
I procedimenti di
fabbricazione delle campane sono rimasti pressoché invariati nel corso dei
secoli, così come i tempi di realizzazione, che per un pezzo medio sono di
circa un mese. La tecnica classica prevede l'utilizzo di tre forme di creta
sagomate, legate tra loro: una interna, detta maschio, una esterna, la cappa
e l'ultima, intermedia, chiamata falsa
campana, che viene tolta al momento della fusione per lasciare spazio alla
colata di bronzo, lega composta da rame e stagno. Il lavoro è complesso e
delicato, e qualsiasi piccolo errore o minima imperfezione può portare alla
formazione di crepe che, se non distruggono la campana, comunque ne alterano la
"voce".
Insomma, ogni fusione è
un'operazione ardua, una sorta di scommessa e di sfida dell'artigiano con se
stesso. Nel 1785 - riferisce ancora Pietro Romano - fu proprio questa difficoltà
a provocare una tragedia: Luigi Valadier, noto argentiere e fonditore di
metalli, nonché padre del più celebre architetto Giuseppe, aveva infatti
ricevuto l'incarico di rifondere una delle campane della basilica vaticana, che
si era rotta. L'artista, pur se molto abile, non era però specializzato nel
campo; nella città si iniziarono allora a diffondere pettegolezzi e una sequela
di voci - certamente generate dall'invidia dei colleghi esclusi dall'ambìto
lavoro - sulla presunta incapacità del Valadier di realizzare l'opera che gli
era stata commissionata. L'artista, non sopportando la "campagna
diffamatoria" e l'eventuale umiliazione, in un momento di particolare
sconforto si gettò nel Tevere, dove morì annegato proprio quando il lavoro era
praticamente ultimato. La campana, si seppe in seguito, era riuscita alla
perfezione.
Giuseppe
Lucci e Rodolfo Marchini, liutai
Si
trova all'interno di un palazzo situato nei pressi del Teatro dell'Opera
l'elegante casa-laboratorio dove un liutaio doc,
Rodolfo Marchini, accompagnato da un immancabile sottofondo di musica classica,
fabbrica e restaura strumenti musicali a corda, proseguendo l'illustre
tradizione di suo suocero, uno dei più grandi maestri del nostro secolo.
L'appartamento,
colmo di lucenti violini allineati alle pareti e di medaglie ed onorificenze di
ogni tipo, ha infatti ospitato fino al 1991, anno della sua scomparsa, Giuseppe
Lucci, liutaio romagnolo chiamato a Roma agli inizi degli anni '50 per
risollevare le sorti di un laboratorio, quello di Rodolfo Fredi che, dopo essere
stato particolarmente prestigioso, era decaduto alla morte del celebre maestro.
Nel corso degli anni, messosi in proprio, Lucci ha espresso pienamente le sue
singolari capacità costruendo pregiati strumenti, facilmente riconoscibili per
l'originale marchio che li caratterizza: due pesci collegati da una lettera G,
simboli del nome e cognome dell'autore.
Compagno di scuola della
figlia del maestro, che in seguito è divenuta sua moglie, il giovane Rodolfo
Marchini ha iniziato quasi per caso ad aiutare l'esperto liutaio, a riposo perché
ferito ad una mano. Ora, a circa trentacinque anni di distanza, vanta un
curriculum di tutto rispetto: i suoi pregiati violini in stile stradivariano -
ma ogni maestro ha i suoi segreti e vi inserisce un tocco personale! - sono
sparsi in varie parti del mondo. Di strumenti ne ha costruiti sinora più di
300. Una cifra di tutto rispetto, considerando che il procedimento per la
realizzazione di un pezzo, composto di fasi particolarmente delicate - la
"sgorbiatura" ad esempio, con cui di dà al violino la giusta
curvatura - è anche molto lungo. Basta ricordare che quando al profano il
lavoro sembra ormai praticamente finito, cioè solo
da verniciare, bisogna ancora passargli - se si vuole seguire il procedimento
"classico" - circa cinquanta mani, una al giorno, di una particolare
mistura di sostanze naturali.
Sul banco da lavoro di un
liutaio si trovano utensili da falegname quali sgorbie, lime e trafori, ma anche
coltellini per intagliare le tipiche effe
e speciali attrezzi come il ferro piegafasce. Nell'osservare un maestro
all'opera si rimane veramente colpiti. Pian piano dalle sue abili mani prendono
forma il fondo, le fasce, il piano armonico, il manico, la testa... insomma si
produce quella "magia", sempre rinnovata, che accompagna la nascita di
ogni strumento. E' chiaro che il costo di un oggetto così prodotto non può che
essere elevato; non c'è dubbio però che la validità di un violino artigianale
ben realizzato è incomparabilmente superiore di quella di uno costruito in
serie.
Un tempo a Roma le botteghe
di fabbricanti di strumenti musicali, che aderivano alla Confraternita dei
Falegnami, erano concentrate in via dei Leutari. La città ha avuto nel corso
dei secoli una tradizione di tutto rispetto in questo campo, come dimostrano
anche alcuni pezzi conservati al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali (che
certamente merita una visita), prodotti da maestri di origine romana oppure
trasferitisi nella città per porsi al servizio della Corte pontificia o delle
famiglie nobili.
Fra
i grandi artefici romani dei secoli scorsi - bisogna comunque sottolineare che
molti liutai che lavoravano a Roma erano stranieri, ed in particolare tedeschi -
si possono ricordare, tra gli altri, Antonio Cortaro e Giuseppe Ferrari. Le
punte più elevate di arte e perfezione tecnica vennero però espresse da
Stradivari e dalla scuola cremonese, di cui Lucci e Marchini sono allievi, che
soppiantò per alcuni secoli tutte le altre.
Attualmente
nella città ci sono alcune decine di liutai. Il mestiere ha infatti
riacquistato prestigio, dopo una lunga crisi in cui ha persino rischiato
l'estinzione, e numerosi giovani si sono nuovamente avvicinati a questa
affascinante ed antica arte, rendendola così meno "élitaria". I più
esperti ed esigenti affermano però che la vera liuteria italiana, quella
"di scuola", ricercata all'estero per la sua forte personalità - gli
strumenti dei migliori maestri del Novecento operanti a Roma quali Politi,
Fiorini, Sacconi, Sannino, Fredi, Lucci raggiungono quotazioni elevatissime sul
mercato europeo e americano! - è
ormai quasi estinta.
La
Bottega Mortet, cesellatori
Nel cortile di un noto
palazzo romano, quello popolarmente chiamato della Scimmia, si trova uno "storico" laboratorio di
cesellatori di oro ed argento, quasi unico per la varietà di lavori che vi
vengono svolti, conosciuti ormai in diverse parti del mondo. Anche se la Bottega
Mortet è lì "solo" da circa quarant'anni, la tradizione
familiare risale al secolo scorso.
Nel ripercorrerla, c'è
forse il rischio di fare un po' di confusione, dal momento che fra i Mortet,
oltre al mestiere, le differenti generazioni si sono tramandate anche i nomi
propri! Proviamo dunque a sintetizzare un po' la storia da quando Aurelio senior,
nonno ed omonimo del "nostro" cesellatore, si trasferì da Parigi a
Firenze e poi, dal 1890, a Roma. Dopo di lui, furono due dei suoi cinque figli,
Armando e Dante, a proseguire la tradizione realizzando molti pregevoli lavori
tra cui la Spada della vittoria
destinata a Vittorio Emanuele III, con l'elsa in oro cesellato, oppure le
lampade per la tomba della regina Margherita. Il "testimone" è stato
quindi raccolto dai figli di Dante, cioè Virgilio - trasferitosi però ben
presto ad Oriolo Romano - ed un nuovo Aurelio, tuttora presente nella bottega
dove, in una allegra e singolare atmosfera "d'équipe", la passione
per il mestiere coinvolge ancora oggi - caso quasi unico nell'artigianato romano
- i giovani della famiglia, Dante, Andrea e Paolo affiancati da un'amica
giapponese, ormai entrata a pieno titolo a far parte della "squadra".
Sarà la gioviale
accoglienza che offrono questi simpatici cesellatori, oppure il fascino della
scoperta di tecniche poco conosciute - chissà, ma forse poco importa scoprire
il motivo! - il risultato è che questa bottega un po' buia, dove viene
praticata un'attività rimasta immutata nei secoli, esercita una particolare
attrazione, tanto che una volta entrati risulta difficile decidere di andar via.
Quando infine si riesce ad
uscire, dopo le appassionate descrizioni e dimostrazioni del signor Aurelio, si
ha la sensazione di avere, in materia, idee molto più chiare. Tentiamo quindi
di comunicare le nostre acquisizioni e scoperte, pur se siamo convinti che per
avvicinarsi a questo mondo non ci si possa avvalere solo di notizie "di
seconda mano", a cui manca quella comprensibilità intuitiva e quel fascino
che possono essere offerti solo dall'osservazione diretta di un cesellatore che,
come poeticamente riferisce Natale Polci, "fa
ogni fiore, ogni foja, ogni figura/ co' una genialità che te trasporta".
Una delle tecniche
principali praticate dai cesellatori è lo sbalzo, che consiste nella
modellazione con il cesello - barretta in acciaio appositamente forgiata
dall'artigiano - e una mazzetta (particolare martello con il manico lungo e
sottile) di una lastra in oro o argento, fissata ad un piano di lavoro, in
genere costituito da una semisfera su cui viene applicato uno strato di pece per
rendere più duttile il supporto. Il cesellatore, battendo sul retro della
lastra con ceselli di diversa grandezza crea un bassorilievo, seguendo un
disegno di sua ideazione oppure fornitogli dal cliente. Con i ceselli vengono
però anche rifiniti oggetti d'arte precedentemente fusi, realizzati da modelli
che talvolta sono veri e propri capolavori, e che nel caso della fusione a
"cera persa" non possono essere riutilizzati.
In un album fotografico
sono racchiuse le "glorie" della bottega Mortet: una penna in oro
consegnata a Giovanni XXIII in ricordo della sua prima enciclica, un anello e
una croce per Paolo VI, un ostensorio per Giovanni Paolo II, alcuni oggetti
rituali esposti nel Museo di Arte ebraica ma anche lavori più
"frivoli" di gioielleria oppure la riproduzione, in formato
"tascabile", dei nasoni umbertini, le tipiche fontanelle romane.
Proprio le fontane romane, di varie dimensioni, sono la specializzazione dei
Mortet, tanto che un Tritone uscito
dalla bottega è stato persino donato a Gorbaciov, in occasione della sua prima
visita in Italia.
Veramente
appassionato del suo lavoro, Aurelio Mortet cerca anche di tramandare, senza
alcuna "gelosia" o reticenza, tutti i segreti di cui è a conoscenza
insegnando, ormai da anni, le tecniche del cesello e della modellazione in cera
nei corsi organizzati dalla Zecca dello Stato. Forse proprio il suo costante
contatto con i giovani lo porta ad essere sempre ottimista e ad affermare che
oggi stiamo assistendo ad una rinascita di interesse per questo mestiere antico,
che a Roma ebbe tradizioni floride soprattutto nel Cinque-Seicento quando si
distinse, tra gli altri, l'avventuroso ed inquieto Benvenuto Cellini.
Modesto
Zoppo, maestro intarsiatore, e i suoi discendenti
Sono in molti a Roma a
ricordare ancora oggi Modesto Zoppo, un vero maestro dell'intarsio ligneo,
quella sorta di mosaico che taluni, erroneamente, confondono con l'intaglio. Del
resto è difficile dimenticare un artigiano che ha dedicato al lavoro oltre 70
anni - proprio così, avete letto bene! - rimanendo, quasi fino alla sua
scomparsa, nel 1980, in mezzo ai suoi "piallacci", le sottili lamine
in legno usate negli intarsi. Nato nel 1898, aveva iniziato ancora bambino, a
soli 8 anni, a lavorare nella bottega di Aristide Ianni, nella zona di S.
Teodoro, divenendo ben presto un vero maestro ebanista, in grado persino di
realizzare, magari prendendo spunto solo da una fotografia, la copia perfetta di
un mobile del Settecento. Cominciava con la costruzione vera e propria, per poi
passare ad intarsi e intagli ed infine alla lucidatura: il risultato era
perfetto, e soltanto occhi veramente esperti potevano distinguere i suoi lavori
dai più antichi modelli. A 21 anni aveva già aperto una propria bottega in via
dei Fienili, poco distante da quella del maestro. Nel 1950 fu affiancato, nel
laboratorio, dal figlio Luciano, appena uscito dalla scuola di Arti Ornamentali
del S. Giacomo, che ha proseguito il lavoro fino al 1992 insegnandolo a sua
volta al figlio Carlo, oggi perfetto conoscitore dei segreti di quest'arte
antica che richiede - per la precisione con cui deve essere realizzata - una
particolare pazienza.
Ormai a Roma si contano
sulle dita di una mano gli artigiani specializzati nel restauro di vecchi
intarsi, pur se si tratta di un campo in cui il lavoro e l'abilità manuale
rimangono insostituibili, anche nell'epoca della produzione industriale di
mobili.
Tecnicamente l'intarsio
consiste nell'applicare, su un supporto ligneo, piccoli tasselli sagomati di
essenze di diverso colore e forma, la cui unione permette di realizzare, sulla
base di un modello prestabilito, sorprendenti giochi di colore, vere creazioni
artistiche consistenti in decorazioni geometriche oppure disegni figurati, in
grado di impreziosire qualsiasi oggetto in legno, di piccole o grandi
dimensioni. L'abilità è necessaria soprattutto per l'intarsio pittorico, per
la creazione di motivi naturalistici e complesse scene che impongono
all'artigiano, in certi casi vero e proprio artista, anche la conoscenza del
disegno e le regole della prospettiva. Oltre a realizzare porte, armadi e
cassettoni la tecnica permette di comporre pannelli decorativi o di rivestire
intere pareti, come dimostra un celebre esempio storico, quello dello studiolo
di Federico da Montefeltro nella reggia di Urbino, opera eseguita da Baccio
Pontelli nel 1475.
Nell'intarsio le tecniche
sono rimaste invariate nei secoli. L'unico cambiamento è dunque rintracciabile
nello strumento usato per tagliare i piallacci: un tempo era il seghetto ad
arco, che venne in seguito sostituito dal traforo, a pedale prima ed elettrico
poi.
Quest'arte antichissima,
che pure oggi rischia di scomparire, in Italia come in altri paesi europei ha
attraversato nei secoli scorsi momenti di eccezionale fioritura, soprattutto
quando è stata espressione di una proficua collaborazione fra l'estro di
eccellenti artisti e l'abilità di pazienti maestri intarsiatori. Basta ammirare
le tarsie del Palazzo Ducale di Urbino per comprendere quali risultati sia
possibile ottenere.
Nel Settecento l'intarsio
ha raggiunto punte artistiche particolarmente elevate in Francia con André-Charles
Boulle, maestro ebanista di Luigi XIV, e in Italia con le preziose creazioni di
Giuseppe Maggiolini e della sua scuola milanese. Nella Roma dei secoli passati
non si ricordano maestri intarsiatori di questo calibro, pur se non mancano
opere pregevoli, come il pavimento intarsiato, opera di Andrea Mimmi, del Salone
d'oro di Palazzo Chigi, che venne sontuosamente decorato
alla metà del Settecento, in occasione delle nozze di Sigismondo Chigi
con Maria Flaminia Odescalchi da una équipe di valenti pittori, stuccatori,
marmorari, ebanisti diretti da Giovanni Stern.
Orologiai
per tradizione familiare
E'
un curioso documento storico che risale agli anni Venti, una licenza del periodo
fascista, a dimostrare che nel 1929 la bottega di orologiai intestata a Enrica
Palombi veniva trasferita, da via Ventiquattro Maggio, in un locale a due passi
dal Foro Traiano, dove si trova ancora oggi. L'autorizzazione consiste in una
polizza del Prestito del Littorio coperta di bolli, firme e timbri vari, dal
momento che chiunque volesse all'epoca intraprendere un'attività commerciale
doveva versare una cauzione in denaro, i cui interessi finivano,
automaticamente, nelle casse della Confederazione
Nazionale Fascista dei Commercianti.
Enrica
era la figlia secondogenita di quel Ludovico, che aveva iniziato la sua attività
di orologiaio aprendo un laboratorio in via del Corso, di fronte al palazzo
Doria; la signora proseguì il mestiere insieme a suo marito, Giuseppe Ezio
Sogno finché nel 1952 il "testimone" passò al loro figlio, ancora un
Ludovico, e quindi, dal 1976, al nipote Paolo che, pur avendo per un breve
periodo tentato di rompere la tradizione familiare, ormai ultracentenaria, è
stato poi nuovamente attratto dal fascino degli strumenti che regolano il tempo
divenendo, come i suoi avi, un vero esperto nella riparazione dei meccanismi di
pendoli e cipolle ma anche nel restauro di quegli orologi che, situati sulle
torri campanarie delle chiese o dei palazzi comunali, da secoli scandiscono la
vita quotidiana della città. Tra gli altri, ha effettuato i restauri del
Collegio Romano, di Villa Giulia e della tenuta presidenziale di Castelporziano.
Cresciuto in mezzo agli orologi, ricorda anche il restauro di Trinità de' Monti
quando, ancora bambino, accompagnava suo padre al lavoro.
Nel
"ticchettante" laboratorio, nascosto in un soppalco del piccolo ed
elegante locale dove Paolo Sogno - pinzette in mano ed immancabile lente di
ingrandimento nella cavità dell'occhio - compie le sue "magie", non
mancano le meraviglie. Vi si trova infatti una piccola ma interessante
collezione di antichi attrezzi del mestiere - morsetti, torni ed alcune
fresatrici, usate per ricostruire le parti mancanti degli ingranaggi - ma anche
alcuni rari e preziosi orologi del secolo scorso con doppio quadrante, ad indicare
l'ora francese, il sistema che usiamo
ancora oggi, e quella italiana, un
complesso ed impreciso sistema in vigore a Roma fino al 1846 quando Pio IX adottò
definitivamente il nuovo metodo - dopo un primo tentativo fallito nel 1798,
durante la Repubblica Romana - già in uso in tutta Europa, che provocò nella
città un disappunto molto diffuso, di cui il Belli si fece portavoce.
Il
mestiere di orologiaio a Roma non dovette godere sempre di ottima fama, se
consideriamo come opinione comune il giudizio espresso, alla fine del
Cinquecento, da Thomaso Garzoni nella sua opera dedicata a "tutte le
professioni del mondo": "Il vitio particolare di questi Maestri da
horologij è questo, che per nettàre, ò forbir solamente un horologio
dimandano dui, o tre ducati, quasi che non si sappia che cosa importi il
nettargli di dentro, et che l'uomo non s'accorga, che non gli fanno altra
fattura attorno se ben con molte ciancie, & parole dicono havergli
aggiustati, racconcie le ruote, posta la mira a segno, accommodato il tempo,
raddrizzato molti ferretti, levata la rugine, & in somma col tenergli in
mano un mese, fanno sembiante d'havervi meschiato molt'opre dentro, & a pena
gli hanno visti, restando appesi a un muro, o serrati in una cassetta come da
loro si costuma".
Domenico
Agostinelli e il Museo dell'Artigianato Scomparso
Pur
se l'attività che attualmente gestisce insieme al fratello rientra in un campo
più propriamente commerciale, che ha quindi perso le iniziali caratteristiche
artigianali, Domenico Agostinelli, un vivacissimo e veramente singolare signore
abruzzese, merita comunque a nostro avviso un inserimento honoris
causa nell'artigianato romano. Certo, è forse un po' azzardato definire
come museo quella sua immensa collezione, disordinata ed eterogenea di attrezzi
ed oggetti di vario tipo legati alla vita quotidiana e al lavoro artigiano e
contadino ma, denominazione a parte, il materiale raccolto - che, ci si auspica,
un giorno qualcuno riuscirà a catalogare - costituisce un importante
patrimonio, un "documento di vita" di inestimabile valore che
meriterebbe certo una maggiore attenzione da parte di chi possiede facoltà e
mezzi per valorizzarlo; nel frattempo consigliamo comunque, a coloro che
vogliono avvicinarsi a mestieri ed attività scomparse o in via di estinzione,
di dedicare qualche ora alla scoperta di questo museo, particolarmente ricco di
strumenti e banchi da lavoro, insegne e prodotti artigianali.
Autore
della vastissima raccolta, l'infaticabile Domenico Agostinelli, rapito da questa
insolita passione ormai da circa quarant'anni, gira per l'Italia e per il mondo
alla ricerca di tutto ciò che riguarda l'artigianato, le tradizioni e la
cultura popolare ...concedendosi però anche qualche diversivo (tanto per non
lasciarsi sfuggire nulla!): fra le sue innumerevoli e bizzarre collezioni ne
troviamo ad esempio persino una di fili spinati.
Il
suo mondo è a Dragona (dalla città vi si arriva agevolmente percorrendo la via
del Mare in direzione di Ostia e nella zona è facile trovarlo perché,
ovviamente, tutti lo conoscono!): il signor Domenico si muove perfettamente a
suo agio nella confusione di quegli enormi locali, circa 2.400 metri quadrati di
esposizione che, nonostante tutto, non sono affatto sufficienti per conservare
la totalità del materiale, ed è per questo che da tempo sta conducendo una
battaglia per ottenere un idoneo locale comunale ad Ostia. Gli oggetti
significativi sono soltanto qualche
decina di migliaia, ma contando proprio tutto, compreso ogni singolo chiodo
oppure bottone - ardua impresa compiuta poco tempo fa da un'efficiente équipe
di fans del signor Agostinelli - si
arriva alla cifra, veramente straordinaria, di 500 mila pezzi!
Chi lo ha incontrato
all'interno del suo "regno" comprende facilmente perché di recente ha
vinto il premio capitolino per la simpatia: con l'entusiasmo e l'energia di un
bambino, questo piacevole signore che corre avanti e indietro non riuscendo a
fermarsi neanche un minuto, mostra con orgoglio le sue migliori o più recenti
acquisizioni, oppure sorride felice quando, accompagnando il visitatore,
riscopre un oggetto che aveva dimenticato. Con tutti i pezzi raccolti, e mai
catalogati, nonostante la sua invidiabile memoria non riesce a ricordare tutto
ciò che conserva!
Questa travolgente - e costosa, sottolineano alcuni suoi sconsolati
familiari - passione, una sorta di "droga" che lo conduce in un eterno
girovagare, è iniziata in Abruzzo quando, giovanissimo, esercitava un mestiere
oggi scomparso, il santaro: proprio la
sua cassetta di venditore ambulante di immagini sacre è stato il primo reperto
della originale collezione, che non ha un vero inizio ed una fine. Gli oggetti,
di tutti i generi, sono infatti sparsi ovunque, tanto che bisogna ad esempio
camminare "naso all'insù" per accorgersi della presenza di una ricca
serie di ombrelli e bastoni appositamente sistemati sui soffitti di alcune sale.
Scaffali, vetrine, armadi sono dunque colmi di tracce di un recente
passato, reperti che nella maggior parte dei casi non hanno alcun valore
economico e che quindi i più hanno gettato tra la spazzatura ma al visitatore
appaiono vivi anche perché, molto più di quelli esposti in un
"normale" museo, colpiscono la sua memoria e lo riconducono
direttamente al suo vissuto, provocando anche, in qualcuno, un pizzico di
malinconica nostalgia.
Meravigliati e in un certo
senso travolti da questo mondo inaspettato e ridondante, si esce frastornati e
un po' confusi, sicuramente con il proposito di tornare, magari con più tempo a
disposizione, per poter meglio assimilare e digerire
quell'insieme di informazioni ed immagini susseguitesi vorticosamente davanti
agli occhi. Nel frattempo però chissà cosa inventerà il nostro vulcanico e
singolare collezionista! Fra le sue mille idee c'è anche quella di ricreare
alcuni angoli scomparsi della vecchia Roma, con la ricostruzione di antiche
botteghe artigiane: il materiale, assicura, non manca, è solo una questione di
spazio!
Se
il museo di Dragona va visitato per la sua particolarità, è chiaro però che
tutti coloro che sono interessati alle raccolte dedicate alla cultura materiale
devono, in primo luogo, conoscere il vasto ed interessante Museo
Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, la principale collezione
etnografica italiana che si trova a Roma, all'EUR, e conserva preziose
testimonianze di mestieri artigiani ed ambulanti scomparsi oppure a rischio di
estinzione.
Il
ricordo dei mestieri perduti
Negli ultimi decenni il
centro storico di Roma ha cambiato volto, anche in seguito alla chiusura di
numerose botteghe artigiane. Molte attività sono oggi totalmente scomparse,
sopraffatte dallo sviluppo della produzione industriale mentre altre,
drasticamente ridimensionate, hanno perso l'importanza che avevano nel passato.
Il ricordo degli antichi
mestieri rimane però nel nome conservato da alcune strade dei rioni storici
della città. Basta prendere uno stradario o, meglio, fare una passeggiata per
le suggestive stradine ed i vicoli della vecchia Roma, in particolare nella zona
di Regola - un tempo importante centro di attività artigianali - ma anche di
Parione, S. Eustachio e Ponte, per trovare le tracce di una toponomastica
"vissuta", testimonianza di un periodo in cui vie e piazze assumevano
un nome legato alle caratteristiche del luogo, alle famiglie che vi abitavano
oppure ai mestieri che vi si svolgevano.
Le leggi di mercato e della
concorrenza, ma anche l'attuale struttura urbanistica della città rendono oggi
inconcepibile la riunione in un unico luogo di tutti coloro che praticano una
stessa attività, concentrazione che invece si verificò per alcuni secoli, a
partire dal Medioevo, quando i vari artigiani romani erano riuniti in Università
e Confraternite. Le ragioni che avevano portato, all'epoca, al raggruppamento,
erano varie: solidarietà di mestiere, difesa di interessi e privilegi,
facilitazioni nei rifornimenti delle materie prime oppure soltanto, in taluni
casi, il rispetto di un'imposizione delle autorità papali.
Nel tempo, la
ridenominazione delle strade e le modificazioni urbanistiche hanno cancellato le
tracce di numerosi mestieri facendo scomparire, tra gli altri, i toponimi
dedicati ad acquaricciari (acquaioli), calderari (fabbricanti di caldaie ed
oggetti vari in rame), cordari (fabbricanti di corde musicali), orefici
(l'attuale via del Pellegrino), saponari, sugherari, che non menzioniamo nel
nostro elenco ma di cui è facile reperire notizie consultando i numerosi testi
editi sulle strade di Roma. Tralasciamo anche le vie dedicate più alla vendita
delle merci che alla loro produzione (come largo dei Librari), oppure quelle che
prendono il nome dai prodotti dell'artigianato anziché dai loro fabbricanti (ad
esempio via delle Coppelle).
Un'ultima precisazione ci
sembra necessaria. Molte attività, che pure sappiamo essere state
particolarmente importanti e floride nella Roma dei secoli passati, non hanno
mai avuto una "propria" strada. I silenzi della toponomastica non
devono quindi trarre in inganno. Molto probabilmente alcuni mestieri non erano
concentrati in un'unica zona della città, mentre altri sono ancora ricordati
nella denominazione di antiche chiese, come S. Eligio dei Ferrari o S. Maria dei
Calderari.
Balestrari
(via dei), da piazza Campo de' Fiori
a piazza della Quercia. Vi si trovavano un tempo le botteghe di fabbricanti e
venditori di un'antica arma da guerra, la balestra, strettamente collegati ad
un'altra attività, quella dei produttori di nervi di bue disseccati, (necessari
per il funzionamento dell'arma), il cui deposito si trovava a metà della via
Ostiense, in una località che venne chiamata Balistaria.
Anche quando, cadute in disuso le balestre, nella via arrivarono i fabbricanti
di archibugi, il nome della strada rimase immutato.
Barbieri
(via dei), da largo Arenula a via del
Monte della Farina. Prese il nome dall'Università che riuniva, oltre ai
barbieri veri e propri, parrucchieri, profumieri, flebotomi e stufaroli, cioè i
gestori di una sorta di bagni pubblici e saune ante
litteram.
Baullari
(via dei), da piazza S. Pantaleo a
piazza Farnese. Sede dei fabbricanti di valigie e bauli, nel tempo venne anche
chiamata via dei Valigiari, dei Ferravecchi e, più recentemente, via della
Marna. Ad un certo punto nella via i valigiai furono sostituiti dagli ombrellai
che però, a dar credito ad un sonetto del Belli, in una città in cui il tempo
è spesso clemente, facevano ben pochi affari.
Botteghe
oscure (via delle), tra via d'Aracoeli
e via Florida. Nel Medioevo vi si trovavano modeste botteghe artigianali, in
particolar modo di fabbricanti di corde e di coperte, scarsamente illuminate
perché ricavate dai resti di antichi monumenti.
Canestrari
(via dei), da piazza Navona a corso
Rinascimento. Ancora oggi nella caratteristica via sono concentrati numerosi
fabbricanti e venditori di oggetti in vimini: ceste, canestri, ma soprattutto
mobili ed oggetti di arredamento.
Cappellari
(via dei), da piazza Campo de' Fiori
a via del Pellegrino. Pur se si sono perse le tracce degli antichi fabbricanti
di cappelli, nella strada è tuttora forte la presenza artigiana. Le numerose
botteghe di rigattieri e restauratori attive nella zona creano una sorta di oasi
in cui è possibile rivivere la particolare atmosfera della città di un tempo.
Catinari
(vicolo de'), da via degli Specchi a
via dei Giubbonari. Era dedicato, come la vicina chiesa di S. Carlo, ai
fabbricanti di catini e, più in generale, di stoviglie.
Cestari
(via dei), da largo delle Stimmate a piazza della Minerva. Prende il nome dai
fabbricanti e venditori di cesti e panieri.
Chiavari
(largo e via dei), il largo, da via
dei Chiavari a corso Vittorio Emanuele II; la via, da via dei Giubbonari a largo
dei Chiavari. Vi si stabilirono, dopo aver abbandonato il precedente
insediamento di via Agonale, i fabbricanti di chiavi e serrature, un mestiere
che qualcuno nel Cinquecento definì dannoso: sembra infatti che alcuni
"mastri chiavari" realizzassero chiavi "contraffatte" ed
insegnassero a "far ladrocini". Rimasero nella strada
fino agli inizi della prima guerra mondiale.
Chiodaroli
(vicolo dei), da via dei Chiavari a
via del Monte della Farina. Il nome ricorda le numerose botteghe di fabbricanti
e venditori di chiodi, che in passato erano prodotti uno per uno manualmente.
Cimatori
(vicolo dei), da via Giulia a corso
Vittorio Emanuele II. La denominazione deriva dall'attività di finitura dei
tessuti. I cimatori, per rendere uniforme il prodotto,
tagliavano infatti i fili di lana che sporgevano al termine della
tessitura.
Coronari
(piazza e via dei), la piazza, da via
di Panico a via dei Coronari; la via, da piazza di Tor Sanguigna a piazza dei
Coronari. E' un tratto dell'antica Via
Recta, uno dei primi e principali rettilinei che attraversavano la Roma
pontificia. La denominazione ricorda i fabbricanti e venditori di corone,
medaglie e oggetti sacri, ma vi si trovavano anche alcuni pellicciai. Oggi è
una delle principali strade di arte e antichità di Roma ed ospita, due volte
l'anno, l'ormai consueta Mostra dell'antiquariato.
Falegnami
(via e vicolo dei), la via, da via
Arenula a piazza Mattei; il vicolo, da via dei Falegnami al vicolo di S. Elena.
Prendono il nome dagli artigiani che lavorano il legno, le cui botteghe erano un
tempo numerose nella zona.
Funari
(via dei), da piazza Campitelli a piazza Mattei. La via, il cui nome deriva dai
torcitori di corde - che vi si erano trasferiti dalla precedente sede in via di
Tor de' Specchi e ai quali è ancora dedicata l'antichissima chiesa di S.
Caterina - comprendeva un tempo anche l'attuale via M. Caetani.
Giubbonari
(via dei), da piazza Campo de' Fiori
a piazza Benedetto Cairoli. Con i suoi numerosi negozi di abbigliamento,
mantiene in qualche modo le tracce del passato, quando vi si trovavano le
botteghe di gipponari (tessitori di corpetti), repezzori (rammendatori) e stramazzatori
(mercanti di seta greggia).
Leutari
(via dei), da corso Vittorio Emanuele II a piazza Pasquino. La strada odierna
ricorda quella limitrofa, scomparsa per l'apertura del corso Vittorio Emanuele
II, che costeggiava il Palazzo della Cancelleria ed era dedicata ai fabbricanti
e venditori di liuti.
Ombrellari
(via degli), da Borgo Pio a piazza A.
Capponi. Fu sede di numerosi fabbricanti e venditori di ombrelli che, sembra, vi
si stabilirono più per obbligo che per scelta, confinati in una zona allora
periferica a causa del cattivo odore emanato dalla tela verniciata ed incerata,
a quei tempi usata al posto della seta nella fabbricazione degli ombrelli.
Pettinari
(via dei), da piazza Trinità dei
Pellegrini a piazza S. Vincenzo Pallotti. Il toponimo ha creato una discordanza
di interpretazione fra vari autori, dal momento che pettinari
erano un tempo definiti sia i pettinatori o cardatori di lana, dalle cui
botteghe uscivano i tessuti chiamati, appunto, "pettinati di lana",
sia i fabbricanti e venditori di pettini.
Pianellari
(via dei), da piazza di S. Apollinare
a v. dei Portoghesi. Vi si trovavano le botteghe di lavoranti e venditori di
pianelle e ciabatte.
Sediari
(via dei), da via del Teatro Valle al largo della Sapienza; la via originaria venne
però assorbita dall'attuale corso Rinascimento. I fabbricanti e venditori di
sedie - ancora oggi nella via se ne trovano alcuni - furono particolarmente
numerosi a Roma come nel resto del Lazio tanto da dare il nome, in passato, a più
di una strada.
Staderari
(via degli), da piazza S. Eustachio a
corso Rinascimento. E' oggi situata fra il Palazzo del Senato (già Palazzo
Carpegna) e la Sapienza, mentre l'antica strada venne distrutta dall'ampliamento
di Palazzo Madama. Il toponimo ricorda i fabbricanti e venditori di quel
particolare tipo di bilancia chiamato appunto stadera.
Vascellari
(via e vicolo dei), la via, da
lungotevere Ripa a via dei Genovesi; il vicolo, da via dei Vascellari a via
Pietro Peretti. Sono dedicati alle botteghe di vasai e fabbricanti di boccali ed
oggetti in coccio.
Attualità
e prospettive dell'artigianato romano
Ancora oggi, nella città
del terziario e dei servizi, l'artigianato rappresenta un settore molto
importante per l'economia: nel 1994 sul territorio comunale erano attive ben
45.000 imprese artigiane con 100.000 operatori.
Queste cifre tendono però
costantemente ad assottigliarsi, per la continua chiusura di numerose aziende e
per la profonda crisi in cui versano molte altre. A parte i laboratori che nel
tempo hanno cessato l'attività perché vi si praticavano mestieri ormai fuori
dal tempo (ferracocchi, chiodaroli o altri), i motivi della diminuzione sono da
attribuirsi all'assorbimento di gran parte del lavoro artigianale
nell'industria, all'immissione sul mercato di prodotti provenienti da paesi in
cui la manodopera costa pochissimo e, fattore non meno importante, alla spesso
sproporzionata ed indiscriminata pressione fiscale e alla mancanza di norme atte
a tutelare e salvaguardare gli operatori più deboli.
Mentre gli artigiani che
abbiamo definito di "servizio" (falegnami, elettricisti, idraulici,
meccanici) e quelli legati all'industria (tornitori, fresatori o altri) riescono
a stare al passo con i tempi, che ne sarà di coloro - la maggioranza - che non
reggono la competitività della produzione in serie?
Da più parti ci si
interroga sul significato del lavoro manuale nell'era dell'elettronica.
L'ingegnosità dell'artigiano, viene spesso sottolineato, non sarà mai
sostituita da alcuna macchina; quel "tocco particolare" che l'uomo
trasmette alla sua produzione non potrà in nessun caso essere realizzato
industrialmente. Ma è proprio la creatività di questo processo che allunga i
tempi di realizzazione e aumenta i costi del prodotto artigianale, tanto da
renderlo ormai "bene di lusso". L'artigianato made
in Taiwan, immessosi prepotentemente sul mercato, di certo non produce pezzi
unici di elevato valore artistico, ma di sicuro è più accessibile
economicamente.
L'immagine comune
dell'artigiano è quella dell'uomo solitario chiuso nel proprio laboratorio,
sempre alle prese con i suoi preziosi ferri del mestiere e... con problemi di
tasse, sfratti e via dicendo. Ma ben poco è stato fatto per rompere quella
mancanza di comunicazione tra la bottega e il mondo esterno, che provoca
talvolta anche l'assenza di uno spirito associativo e di solidarietà
tra gli artigiani e che fa sì che taluni non conoscano neppure le
normative e i provvedimenti che mirano a tutelare questo importante patrimonio
storico-artistico.
Negli ultimi anni la giunta
comunale ha approvato alcune delibere che, sia pur timidamente, cercano di
affrontare il problema degli artigiani e della loro graduale espulsione dal
centro storico. Gli impegni presi dall'amministrazione capitolina sono numerosi.
Tra gli altri, la compilazione di un albo che comprenda le botteghe con più di
sessanta anni di attività e quelle considerate a rischio di estinzione, misure
per bloccare gli sfratti, divieti di cambio di destinazione d'uso per fermare
l'espansione delle jeanserie,
individuazione di aree dismesse da trasformare in poli di produzione
artigianale.
Intanto, mentre slitta nel
tempo l'attuazione di questi provvedimenti, avanza però la speculazione delle
grandi immobiliari e delle catene di distribuzione: il centro storico assume
quindi sempre più le caratteristiche di "salotto" riservato a pochi
eletti, in cui gli artigiani diventano, al più, fenomeno folcloristico e di
attrazione turistica. "Il cuore stesso della città, che nei secoli fu
vivace e ricco di operosità popolare, dovrebbe presto ridursi ad un dormitorio
di lusso, fra uffici la sera deserti, grandi magazzini e qualche museo":
così l'ex sindaco Ugo Vetere prospettava alcuni anni fa il futuro della città.
Malgrado le intenzioni dichiarate dagli attuali amministratori, il processo va
ancora avanti.
I giovani si accostano
sempre meno all'artigianato: il miraggio di un "posto fisso" in grado
di fornire una "sicurezza economica" tiene lontane le nuove
generazioni dalle botteghe. Non bastano le iniziative sporadiche, pur
apprezzabili, di qualche volenteroso insegnante (come l'interessante
progetto-pilota realizzato dalla prof.ssa Rita Laganà nella Scuola Media D.
Manin) per far conoscere ai giovani le arti applicate: solo con la creazione
di nuove scuole pubbliche di formazione professionale, in grado di preparare
personale qualificato, si potrà pensare di ottenere qualche risultato.
A Roma operano attualmente
tre Istituti statali d'arte. Uno è quello che un tempo si trovava in via Silvio D'amico: vi si insegnano
l'arte dei metalli e dell'oreficeria, quella della ceramica, del tessuto, della
stampa, del legno. Il secondo si trova in via del Frantoio, dove all'interno
della sezione di arredo sacro si tengono lezioni di metalli, oreficeria,
decorazione pittorica, arredamento e architettura. L'ultimo, di recente
istituzione, è in via dei Decemviri: vi si svolgono corsi di fotografia,
stampa, grafica, arredamento e architettura. Poche altre sono le strutture
pubbliche alle quali i giovani possono accedere: è da segnalare la scuola per
Arti Ornamentali in via S. Giacomo, struttura antica e prestigiosa ma in perenne
ristrutturazione.
Non c'è dubbio: serve un
maggiore impegno per l'artigianato, un settore che deve continuare a vivere. La
mano dell'uomo sarà sempre necessaria per alcune produzioni, nessun computer
potrà mai sostituirla totalmente!
Elenco delle corporazioni dal Medioevo
all'Ottocento
Riportiamo l'elenco delle
Università di arti e mestieri dal Medioevo all'Ottocento secondo il loro secolo
di origine. Il moltiplicarsi delle corporazioni, dal Cinquecento al Settecento,
si spiega con il distacco di alcuni gruppi dalle arti più complesse, che portò
alla formazione di sodalizi sempre più specifici. I dati - su cui esistono
alcune discordanze fra differenti autori - sono stati ripresi dal testo di G.
Morelli citato nella bibliografia.
Secolo
XIII: albergatori; calzolai; fornai;
medici; merciai, muratori.
Secolo
XIV: agricoltori; barcaroli;
cambiatori di monete; falegnami; ferrari; orefici e sellari; lanari (padroni);
macellari; osti; pittori.
Secolo
XV: barbieri; barilari;
fabbri-ferrari; facocchi; mulattieri; orefici e argentieri (maestri); pecorari;
scalpellini; sellari; speziali; vaccinari.
Secolo XVI:
acquaroli; albergatori e vetturali; banderari; battiloro; calzettari (padroni);
calzolai (lavoranti e garzoni); candelottari; carrozzieri; chiavari (giovani);
cocchieri; coltellinari; commercianti; credenzieri; cuochi e pasticcieri;
fornaciari; fruttaroli; lanari (garzoni e lavoranti); librai; linaroli; canepari
e funari; materassari (maestri) e rigattieri; materassari (lavoranti); molinari
(padroni); mondezzari; musici; notai capitolini; ortolani (padroni); osti
(garzoni); osti di Borgo; pescatori; pescivendoli; pizzicaroli (padroni);
pollaroli; pozzolanari; sarti (maestri); sarti (lavoranti); scrivani; sensali di
Ripa e di Ripetta; spadari; stampatori (proprietari); tessitori; vascellari;
vignaroli.
Secolo XVII:
acquavitari e tabaccari; arrotini; barbieri (lavoranti); bettolieri; calzettari
(lavoranti); cappellari (fabbricanti e venditori); cappellari (lavoranti);
caprettari; carbonari; carrettieri e loro garzoni; carrettieri di Borgo e di
Trastevere; cordari; falegnami (lavoranti);
(padroni); ferravecchi; maniscalchi (padroni); mercanti fondacali;
molinari (garzoni); morsari; norcini; orefici e argentieri (giovani); ortolani
(garzoni); pellicciari; rigattieri; saponari e oliari; scaricatori di barche;
scarpinelli; spadari (giovani); tintori; vermicellari, (lavoranti e garzoni).
Secolo XVIII:
archibugieri; artebianche orzaroli e nevaroli; artegrossa; calderari; chiavari;
chiodaroli; coronari; cottiatori; droghieri; ferracocchi (giovani); fornaciari
del vetro; guantari; maniscalchi (giovani); marinai; mercanti e fabbricanti di
corde armoniche; mercanti di vino, detti magazzinieri; ottonari; parrucchieri;
pizzicaroli (giovani); sediari; setaroli; stagnari; stampatori (lavoranti);
vermicellari (padroni); veterinari; vetturini.
Secolo XIX:
commercianti di vino; periti patentati e negozianti di mobilio; scalpellini
(lavoranti).
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popolari romane,
Indice
Premessa
Cenni
storici sull'artigianato e le corporazioni
La Roma antica
Il Medioevo
Corporazioni e
Confraternite
Verso il declino
Imparare un mestiere,
ovvero "andare a bottega"
Il Museo Artistico
Industriale
Il
lavoro di bottega nei secoli scorsi
Vita da maestro
Vita da garzone
Alla
scoperta dell'artigianato artistico
Gli artigiani del legno
Bottai, facocchi e
tornitori
Il doratore
L'arte del vetro
La ceramica, lavorazione e
restauro
La lavorazione dei metalli
preziosi e comuni
Marmorari e mosaicisti
Altre attività
Storie
di artigiani
La Ditta Lucenti, fonderia
di campane
Giuseppe Lucci e Rodolfo
Marchini, liutai
La Bottega Mortet,
cesellatori
Modesto Zoppo, maestro
intarsiatore, e i suoi discendenti
Orologiai per tradizione
familiare
Domenico Agostinelli e il
Museo dell'Artigianato Scomparso
Le
vie artigiane
Il ricordo dei mestieri
perduti
Attualità
e prospettive dell'artigianato romano
Appendice
Elenco delle corporazioni
dal Medioevo all'Ottocento
Bibliografia
essenziale